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Bello ma... non lo indossi!

25/10/2025

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Bello questo capo ma non esco mai, non ho occasione di metterlo.
Mi piacerebbe essere più ricercata nel vestire ma lavoro da casa e mi vesto in modo comodo e semplice.
Mi piacciono i tacchi ma corro tutto il giorno spostandomi con i mezzi, ho bisogno di stare comoda, così compro solo scarpe basse.
​

Sarà capitato anche a te di dire qualcuna di queste frasi o di ascoltarle conversando tra amiche.
Il rapporto con i vestiti mi affascina proprio perché parlando di loro parliamo di noi, di ciò che ci impegna, delle nostre priorità, teorie, convinzioni.
Quando, in relazione ai vestiti, diciamo che qualcosa ci piacerebbe ma... cosa stiamo realmente dicendo?
Da un lato, dato che i vestiti hanno a che fare con l’aspetto, stiamo affermando che qualcosa ci piacerebbe per la nostra immagine; tuttavia il desiderio di quella tipologia di capo, di accessorio o di stile non è prioritario. Di riflesso, ne consegue che neanche la nostra immagine lo sia: nei diversi esempi la priorità viene data al contesto, alla comodità, alle occasioni d’uso. Non è sbagliato scegliere la comodità o l’adattamento al contesto: il punto è farlo con consapevolezza, non per automatismo o rinuncia.
Dall’altro, se dipendesse da noi faremmo diversamente... ma... e così succede che si opta per una rinuncia, dandosi un limite, contenendosi. A lungo andare, queste micro-rinunce possono generare una lieve incoerenza tra ciò che desideriamo e ciò che mostriamo, come se la nostra immagine restasse un passo indietro rispetto al nostro potenziale.
Di seguito prenderò in analisi una per una le casistiche e  proverò a metterle in discussione con una provocazione perché credo che più che essere fondate su ostacoli reali siano sorrette da credenze limitanti.

Bello questo capo ma non esco mai, non ho occasione di metterlo.
Comprendo che non siamo abituati a vedere paillettes e lustrini al supermercato, in ufficio o di giorno in giro per la strada, e sono anche convinta che gli abiti abbiano delle prevalenti occasioni d’uso. Tuttavia, la frase di sopra mi capita di sentirla di fronte ad abiti che ritengo abbastanza versatili. Spesso, la questione riguarda la collocazione di quell’abito nei propri standard personali.
Se esco poco probabilmente indosserò prevalentemente jeans, maglioni e magari un vestito in raso di viscosa, una giacca, un pantalone palazzo o un maglioncino mohair mi appariranno da occasione speciale.
Ed ecco la provocazione: se invece di pensare che il capo più prezioso abbia necessità di un’occasione speciale per andare in scena, pensassi che il solo fatto di indossarlo perché mi piace, indipendentemente da quello che farò, crea di per sé l’occasione e il senso dell’essere usato?
Non è una legge magica di causa-effetto, ma un cambio di prospettiva: quando ci mostriamo diversi, spesso iniziamo anche a sentirci diversi, più aperti a creare occasioni nuove.
In sintesi: lo indosso perché mi piace, e questo è sufficiente.
A questo posso poi aggiungere esperienze: indossandolo per onorarlo faccio cose che mi piacciono, ad esempio una passeggiata, un caffè in quel posticino che amo, una visita ad un’amica.
I vantaggi che vedo sono numerosi: fare esperienza nell’avere addosso qualcosa di bello e probabilmente di una consistenza diversa dal solito; vedere aspetti nuovi di sé, un’immagine diversa e probabilmente più piacevole; e infine una probabile relazione diversa con gli altri.
Il nuovo capo probabilmente si alleerebbe con altri elementi: un accessorio, un dettaglio che farebbero da amplificatori per l’upgrade dell’immagine e delle occasioni che accadranno.
In definitiva ciò che conta non è la forma del capo ma l’intenzione di sceglierlo come gesto di presenza verso se stessi.

Mi piacerebbe essere più ricercata nel vestire ma lavoro da casa e mi vesto in modo comodo e semplice.
Il fatto di lavorare nella propria abitazione fa sì che il nostro cervello percepisca l’ambiente come informale, perché in casa si sta comodi, in tuta, con le ciabatte, e questa condizione favorisce opinioni e standard su cosa sia opportuno indossare nel perimetro casalingo.
C’è in questa condizione un ulteriore elemento da considerare che riguarda le eventuali relazioni con terzi via call o via Zoom: immagino ad esempio un grafico che può passare intere giornate senza interagire con nessuno; diversamente, un manager potrebbe fare diverse riunioni online. In questi casi, per tarare il proprio dress code, conta anche il luogo in cui si trovano gli altri interlocutori, ma non voglio introdurre troppe variabili.
Ed ecco la provocazione: se invece di pensare al guardaroba in relazione alla coerenza con il contesto lo si immaginasse in relazione alle possibilità che può offrire a sé nello sbizzarrirsi e divertirsi nella scelta e, secondo i principi dell’enclothed cognition, per quanto può offrire per lavorare meglio, in modo più creativo, analitico o empatico a seconda della professione?
Non significa che un abito trasformi la performance lavorativa in modo diretto, ma può modificare la percezione di efficacia personale e l’energia con cui ci si pone nel lavoro.
I vantaggi sono quindi in termini di soddisfazione personale innanzitutto, e a seguire di performance rispetto al proprio settore.

Mi piacciono i tacchi ma corro tutto il giorno spostandomi con i mezzi, ho bisogno di stare comoda, così compro solo scarpe basse.
Questa potrei averla detta io, anzi l’avrò sicuramente detta in qualche occasione. Trovo i tacchi bellissimi e mi piace tantissimo la sensazione di indossarli: mi sento più forte e potente. Tuttavia li trovo davvero scomodi e non li indosso mai, e così mi ritrovo ad essere quasi sempre la più piccola. Credo di averci fatto l’abitudine, ma sarà proprio vero?
L’idea che gli altri si fanno dall’esterno, per una serie di bias, è di fragilità e tenerezza, che può comunque avere i suoi vantaggi.
Ed ecco la provocazione: se invece di pensare alla scomodità, pensassi che indossando i tacchi potrei approfittare per concedermi delle comodità? Anziché i mezzi pubblici, quel giorno se posso prendo l’auto; se non posso, chiedo un passaggio a un collega; oppure inizio ad indossare un tacco-compromesso, non a stiletto quindi, ma una zeppa o un tacco largo.
Anche qui vedo vantaggi: sentirmi più forte, con più fascino, concedermi delle comodità giustificate dal limite della scarpa. E forse scoprire che piccoli cambiamenti nell’abbigliamento possono influire sul modo in cui ci muoviamo nel mondo, non perché gli altri ci vedano diversi, ma perché noi ci percepiamo più intenzionali e presenti.

Per concludere, quello che accomuna le tre casistiche nel cambiamento è il mettersi al centro dando ascolto al proprio piacere nel primo caso, al divertimento nel secondo e alla comodità nell’ultimo.

In fondo, non si tratta di moda né di vanità, ciascuno può usare i propri abiti come linguaggio per ricordarsi di sé, come un piccolo esercizio di presenza quotidiana.
Vestirsi tenendosi in conto non ha a che fare con la vanità, bensì con la vitalità, è un atto simbolico di presenza, di desiderio, di movimento.
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