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Una stagione per indossarti

31/8/2021

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In un precedente post, scrivevo di come gli stilisti, attraverso le forme ed i colori che, con l’anticipo di un anno per l’altro, scelgono per le loro creazioni definiscono i messaggi che con maggiore frequenza troveremo in circolazione e gli input che i nostri cervelli potranno elaborare per farci sentire certe emozioni piuttosto che altre. 
PersonAtelier nel suo piccolo ha scelto gli input dei capi autunno/inverno della linea Lessico dell'abbigliamento.
La novità di questa stagione è che la classica "parola" impressa su una targetta è stata sostituita da un QR-code, ogni capo avrà come di consueto il suo cartellino con impresso il codice.
Un primo assaggio nella sezione del sito dedicata al Lessico dell'abbigliamento il primo QR-code per leggere i nostri ingredienti per una stagione in cui indossarti!
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Tra le pagine dei libri come tra le pieghe dei vestiti

28/7/2021

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Questo mese di luglio è stato un mese di ricomposizione,  ho potuto dedicarlo a cose che avevo tralasciato: letture, capi e oggetti da sistemare.
Il comun denominatore è stato ritornare al passato. Sia per lavoro, sia per diletto,  le letture sono state tutte un po’ vintage, dei manuali  e delle monografie degli anni 60-70-90, così come romanzi  con storie ambientate nel ‘900.
L’effetto  è stato strano, del tipo: so  già come va a finire ma è bello ripercorrere le tappe.

Per esempio rispetto ai temi della psicologia dell’abbigliamento mi ha sorpreso ritrovare l’antesignano dell’enclothed cognition nel concetto di “funzione predisposizionale” .  L’autore (M. Bianca) spiega che questa espressione si riferisce al fatto che l’abbigliamento non solo esprime i caratteri della personalità, ma agisce come stimolatore e rafforzatore del comportamento. In tal senso l’abbigliamento predispone l’individuo ad essere e agire in modo “consono” all’abbigliamento che indossa.
Indossare un abito stimola a comportarsi seguendo i significati che sono stati assegnati, Per questo quando si indossa un abito del proprio guardaroba si indossa anche il comportamento abbigliativo associato.
Quasi 30 anni fa veniva descritta, con parole poco frequenti, quella che oggi va sotto il nome di enclothed cognition.
Insomma questa immersione nel passato ha reso evidente come alcuni concetti siano superati, altri delle evoluzioni, altri alla ribalta, e ho pensato che quello che possiamo consapevolizzare tra le pagine dei libri, succede anche tra le pieghe dei nostri abiti.
Così come i libri, della nostra libreria, ci rimandano la storia di quello che è stato è ciò che è diventato, i vestiti del nostro guardaroba ci rimandano l’immagine di chi eravamo e siamo diventati.
Mi sono domandata guardando alcuni capi chi ero quando ho scelto un certo paio di pantaloni, quella blusa che oggi non metto più o quel top che metto da almeno 15 anni.
Proprio come ho fatto dopo la lettura con i concetti che ho appreso dai libri, ho fatto con i vestiti del mio guardaroba, in entrambe i casi: ho individuato cosa mi corrispondeva, cosa mi suscitava un’emozione, quello che era una garanzia, quello che non capivo o mi lasciava dei dubbi e quello che non mi diceva (più) niente.
E così sono seguite delle azioni, e delle direzioni, ho ricomposto  quello che ho dentro e quello che metto fuori, pensieri e vestiti, ne sono uscita con più chiarezza sui progetti di settembre.
Se  fare questo lavoro ti interessa puoi decidere se farlo a partire dai libri o dai vestiti rispondendo ai punti di seguito. Della tua libreria e/o del tuo guardaroba cosa:
  • ti corrisponde oggi (vale a dire ti fa emozionare, brillare gli occhi, sorridere)?
  • è per te una garanzia (vale a dire che sai che funziona a prescindere)?
  • non ti convince del tutto (perché non capisci fino in fondo, ti lascia perplessa)?
  • non ti dice più niente (vale adire non ti entusiasma)?
E decidi cosa fare, cosa tenere, a cosa dare una possibilità di approfondimento e cosa lasciar andare.
Intanto luglio volge al termine, agosto è alle porte, dunque  buona estate e arrivederci a settembre!
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Style Neuro Selling

16/6/2021

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La ricerca “The Future of Retail Store and Customer Engagement in the New Normal”, condotta dagli studenti del MAFED, il Master in Fashion, Experience & Design Management di SDA Bocconi, e promossa da Salesforce, azienda leader globale nel CRM, porta alla luce alcune tendenze del settore fashion e tra queste mi ha colpito il punto sul cambiamento dal B2C all’H2H.
Sembrano formule chimiche e invece  si tratta di approcci e strategie di marketing e comunicazione,  nel primo caso Business to Consumer nel secondo Human to Human.
La ricerca mette in evidenza come gli addetti vendita del settore moda sempre più saranno chiamati a diventare consulenti a tutto tondo capaci di offrire suggerimenti mirati e personalizzati.
L’H2H si configura come una vera e propria forma mentis che permette di entrare in sintonia con il cliente, interpretare al meglio i suoi bisogni per aiutarlo a soddisfarli consentendogli di portarsi a casa un valore aggiunto di tipo “educativo”, e al tempo stesso facendogli concludere l’acquisto.
Con valore aggiunto di tipo educativo intendo che il cliente possa uscire dall’esperienza di acquisto con delle informazioni in più sul prodotto, sul brand, o su di sé, che sia un chiarimento sul suo bisogno, la conoscenza di una sua caratteristica, una strategia di valorizzazione e così via.
Questo si traduce in una maggiore fidelizzazione e fruizione del servizio.
Ma perché ciò avvenga il consulente di vendita deve sempre più diventare un abile osservatore e lettore del suo cliente, nei suoi problemi, nelle sue risorse (soprattutto quelle che non vede), nei suoi obiettivi e nelle sue sfide.

E così insieme ai colleghi di Now! retail specialist, specializzati nel retail marketing, abbiamo lavorato ad un progetto formativo per accompagnare questa evoluzione di ruolo, mettendo insieme le nostre competenze in una percorso rivolto agli staff di vendita dei settori fashion e beauty sui temi dello stile, delle neuroscienze, della consulenza d’immagine e del neuro selling.
Style Neuro Selling è un percorso articolato in 4 aree tematiche due nell’area psicologica e stilistica e due nell’area vendite secondo i più recenti approcci delle neuroscienze e del neuro selling.
Una  formula che ci è sembrata efficace per  favorire un approccio incentrato sulla persona che permette di creare una relazione nella quale l’acquisto da spesa diventi investimento e valore, in un approccio win-win per il cliente e per il brand.
Per approfondire visita la vetrina dei Servizi e il sito di Now! Retail Specialist
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iNDOSSA-TI

20/5/2021

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In questo periodo, per diverse ragioni, sto raccogliendo materiale sulle idee di scenario futuro del settore moda e di come ci si vestirà post-pandemia e sto maturando l’idea che gli stilisti siano un po’ maghi.
In un certo senso, con il loro lavoro, creano di stagione in stagione la versione di chi saremo.
Attraverso le forme ed i colori che con l’anticipo di un anno per l’altro scelgono per le loro creazioni definiscono i messaggi che con maggiore frequenza troveremo in circolazione e gli input che i nostri cervelli potranno elaborare per farci sentire certe emozioni piuttosto che altre. Questo ci spiega la “cognizione vestita”, che le forme ed i colori pervadono i nostri cervelli, che reagiranno di conseguenza: un tessuto rigido sarà un invito a stare più dritti, una morbida lana ad accoccolarsi al suo interno, un vestito sartoriale a ragionare in modo più astratto, un abito casual ad essere più pragmatici, un colore profondo ad avere uno sguardo interiore, tutti elementi raccolti dalla psicologia e dalle neuroscienze per spiegare gli effetti degli abiti sul nostro comportamento.
Mi chiedo se di questo potere, di contribuire cioè a presentificare le condizioni che esperiremo, ne sono consapevoli gli stilisti, in quest’ottica non si tratta di preoccuparsi di come appariranno  i loro vestiti ma soprattutto di come ci  staremo dentro e di chi saremo indossandoli.
I designer, più che rispondere al mondo che ci circonda,  secondo me concorrono a crearlo, con il loro lavoro costantemente proiettato nel futuro.
A noi poi il compito di “indossarci”, selezionando quello che più ci corrisponde tra l’offerta a disposizione per rappresentarci nel nostro “essere” che comprende chi siamo (il nostro sé), chi possiamo essere (le nostre potenzialità), chi vogliamo essere (i nostri desiderata) e via a seguire.
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Dichiarazioni, dichiaranti, magi e maghi

22/4/2021

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Oggi ho ascoltato, su Storie libere, l'ultimo episodio di Morgana dedicato a J.K Rowling, lo scambio che è seguito tra Michela Murgia e Drusilla Foer è stato "altissimo" (cit.)

In ordine sparso quello che mi ha colpito a proposito di identità, immagine e corpo e le associazioni che mi sono venute in mente a proposito di dichiarazioni, dichiaranti, magi e maghi.

L’autodefinizione come atto di magia: divento quello che dico di essere, creo quello che pronuncio e l’importanza di essere consapevoli di sé.
Eh già… qui entra in gioco il potere del dichiarare. La dichiarazione è un atto linguistico che genera una nuova realtà. Nel momento in cui dichiaro che farò… sarò…otterrò, inizia un nuovo futuro.
Allora quanto è importante che le mie dichiarazioni siano allineate con chi sono e chi voglio essere!
Le dichiarazioni richiedono legittimazione, ossia affinché funzionino e compiano quel che dicono occorre che il dichiarante abbia autorevolezza e potere: quando un prete dice “adesso siete marito e moglie”, quell’unione diventa reale, perché il prete ha il potere di farlo.
Di qui, per le nostre dichiarazioni, l’importanza di legittimarci, ritenerci autorevoli e potenti rispetto a quello che dichiariamo.
Non a caso poco dopo nell'intervista il dialogo procede con la distinzione nel concetto di magia e la Foer specifica che: c’è la magia che riesce, quella che incanta, quella che inganna, e che ci sono i maghi e i magi.
I magi operano per il bene, agiscono sulla materia, i maghi possono operare anche per il male.
Proprio come le nostre dichiarazioni: a volte riescono, a volte ci ingannano, a volte ci sbalordiscono. L’esito, a questo punto mi è più chiaro che, dipende da quanto ci percepiamo magi(ci).

​Infine le due commentatrici portano diverse visioni del corpo, da un lato il corpo come strumento, come racconto oltre il corpo, per dire chi sono e mostrare come sono dentro e dall’altro il corpo come limite, come campo di battaglia e fragilità: "vedere me e non oltre me".

Estendo il concetto dal corpo all’immagine e penso che condivido tutte e due le posizioni, che possono coesistere: il corpo/immagine può raccontarmi e può anche rendermi invisibile.
Oggi preferisco concentrarmi sulla prima opzione, allora mi prenderò del tempo per: dichiarare chi sono e chi voglio essere, legittimando il mio potere.
Manca solo una parola magica, ah no… prenderò a prestito un evergreen, allora....abracadabra "io creerò come parlo", vuoi provarci anche tu?
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Abbigliamento, lavoro da casa e pandemia un anno dopo

15/4/2021

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In queste settimane in cui il negozio è stato chiuso mi sono dedicata a tempo pieno, come non facevo da un po’, al lavoro di consulente risorse umane. Quando vesto i panni della consulente mi occupo di selezione, formazione e valutazione del personale, in questo periodo ho tenuto interviste di ruolo e assessment e questo mi ha dato modo di riflettere molto sul tema abbigliamento e lavoro da casa, abbigliamento e pandemia.
Sono consapevole che la pandemia ha effetti ben più gravi da analizzare rispetto alle ricadute sull’abbigliamento, tuttavia ritengo che il risultato complessivo del nostro benessere abbia tanto a che fare con le singole azioni che quotidianamente riteniamo trascurabili (come ad esempio scegliere cosa indossare) e che invece sommate tutte insieme hanno  un peso importante.

Nelle mie riflessioni come sempre parto dalle mie sensazioni e dalla mia esperienza: sono state settimane in cui sono uscita molto poco e ho passato tanto tempo al computer, era già successo durante il primo lockdown  ma la situazione era molto diversa, in quel frangente lo scenario era nuovo per tutti e c’era maggiore omogeneità.
A distanza di un anno ho riscontrato invece situazioni differenti, c’è chi alterna lavoro da casa a lavoro in presenza, c’è chi lavora da casa dall’inizio della pandemia, c’è chi tra alti e bassi non ha mai smesso di lavorare in presenza, in più c’è il vissuto di oltre un anno sulle spalle.
Mi sono allora chiesta come è cambiato il rapporto con la nostra immagine e con il nostro abbigliamento, quale impatto  ha tutto questo con il nostro modo di lavorare e quale sul settore dell’abbigliamento in particolare del pronto moda.

Partendo da me, quello che ho osservato
Avendo avuto il negozio aperto da maggio dello scorso anno, tolta una parentesi a novembre per il secondo lockdown, ho sempre avuto una routine in cui mi preparavo per uscire e per avere la possibilità di incontrare e interagire “dal vivo” con un una clientela.
Il fatto di interromperla, avendo collegamenti via web, ha ridimensionato l’importanza della scelta di cosa indossare o meglio la scelta circa la varietà e la diversificazione.
Era come se, una volta individuati alcuni elementi “adatti” (quella maglia, quella camicia, quel pantalone) non servisse altro.
La faccenda a questo giro si è un po’complicata perché come dicevo essendoci situazioni molto diverse potevo trovarmi ad interagire con persone che lavoravano da casa, oppure erano in ufficio perché era il giorno in cui a rotazione gli spettava, oppure erano situazioni più “formali” che richiedevano la presenza di più interlocutori ed un setting particolare. Altre volte ancora il collegamento avveniva con la richiesta di tenere la webcam disattivata per svariati motivi.
Succedeva come è presumibile che sia  che quando le persone si connettevano da casa  l’abbigliamento era molto  più casual, dall’ufficio  più formale e la formalità aumentava ancora di più se eravamo in momenti istituzionali.
Nella maggior parte dei casi non sapevo “dove” avrei incontrato il mio cliente,  non  sapevo cioè nel momento in cui fissavo l’incontro se quel giorno si sarebbe collegato da casa o dall’ufficio e questo mi ha messo in una  interessante posizione: gli abiti che avevo selezionato potevano non essere del tutto adeguati, perché io ero in casa e casa per il mio cervello vuol dire casual ma il mio interlocutore poteva non esserlo…
Ho così iniziato a vedere lo spazio in cui lavoravo non più come casa ma come ufficio e questo ha generato un atteggiamento diverso anche verso l’abbigliamento,  l’effetto è stato bypassare la capsule che avevo creato e tornare a selezionare dall’intero guardaroba e ho notato che questo a sua volta mi ha invogliato a uscire di più da quel confine e ha prendermi delle pause dalla casa.
All’inizio l’avere più o meno gli stessi capi mi portava a usare gli stessi anche quando uscivo  per commissioni e ancora più in generale a ridurre il numero di uscite facendo più attività casalinghe.
Il fatto cioè di indossare abiti da casa mi faceva fare più cose di casa, mentre avere un abbigliamento più formale mi ha portato a inserire nella mia giornata attività fuori casa.

Allargando il campo, le mie riflessioni
I confini sono importanti per creare i ruoli e i ruoli sono importanti per diversificare, per me individuare uno spazio della casa (specifico che spazio non vuol dire “stanza”) come ufficio mi ha permesso di vedere meglio il ruolo e l’abbigliamento è stato una conseguenza, si è arricchito in quantità e qualità.
Il troppo stroppia ma il poco restringe, penso alla capsule che avevo creato, era molto pratica al fine della scelta e della gestione (lavo/stiro) ma aveva generato in me un senso di pigrizia mentale che stava diventando anche fisica, la conclusione che ho tratto è che restringere il guardaroba (pochi capi, simili tra loro quanto a comfort) può restringe il campo di azioni ed esperienze, in soldoni: sto più a casa e faccio più cose di casa con il rischio alla lunga di provare frustrazione. Questo mi ha fatto ripensare al concetto di minimal e di “divisa” e mi sono chiesta se alla lunga questa potesse diventare fattore di riduzione anche nel pensiero. Io sono una fan del minimal perché ritengo che permetta di generare coerenza e un senso di sicurezza, d’altro canto ora mi chiedo cosa implichi in termini di chiusura, individualismo e rigidità … mi propongo di ritornarci su….
La cura di sé ha bisogno dello sguardo dell’altro, quando mi preparo per andare in negozio dove gli incontri sono “dal vivo” la cura che metto nel preparami è diversa, più precisa e attenta, idem quando ho un incontro anche virtuale ma che reputo “importante”, quando invece si tratta di un incontro di routine (incontri con chi ho familiarità), o lo sguardo dell’altro non c’è (webcam spenta) o non lo percepisco (andare a fare la spesa, dove gli sguardi sono di sfuggita e di estranei) la mia cura diminuisce. Tutto questo mi fa pensare che ci sono sguardi e sguardi nel generare i nostri comportamenti e che forse il nostro sguardo non è sempre sufficiente a motivarci alla cura o almeno il mio non lo è stato.
Sono sempre stata una sostenitrice di “l’importante è piacersi”, “quello che scegliamo nel nostro abbigliamento dipende solo da noi”, “piacere agli altri è secondario”, ora mi sorprendo a pensare che l’altro conta e questo non è un male semmai una spinta gentile …. mettendoci in mostra ci vediamo, nel senso che “compariamo” anche a noi stessi e forse non mostrandoci rischiamo via, via di scomparire.
Le nostre abitudini generano i nostri standard e questi condizionano il nostro comportamento: se mi abituo ad indossare la tuta a casa e sto a casa tanto tempo questo diventerà il mio standard per l’abbigliamento anche oltre le mura domestiche con quali effetti? Su questo punto ho voluto confrontarmi con altri punti di vista che riporto di seguito.

Lo “stile casalingo” quali effetti?
Mi sono confrontata con alcuni colleghi e amici per esplorare il percepito e comprendere quali effetti sta producendo, sulla cura di sé, lo stare in casa con un abbigliamento comodo, per un tempo prolungato.
Ho allora fatto un piccolissimo sondaggio, chiedendo ad una ventina di amici e colleghi (17 donne e 3 uomini) come fosse il loro livello di cura nel prepararsi per uscire  a seguito di un periodo prolungato di lavoro/permanenza in casa.
Il quesito era: quando esci, dopo periodo prolungato a casa, ti vesti con più cura o con meno cura del solito?
Il 35% ha dichiarato con più cura, il 65% con meno cura. I commenti associati alla risposta sono stati: “divento meno esigente nella ricerca dell’abito dopo aver passato molto tempo a casa”, “metto sempre le stesse cose, raramente scelgo qualcosa di diverso dal solito”, “quando a casa indosso la tuta, tendo ad usarla anche per uscire curandomi di meno”, “ahimè mi vesto sempre allo stesso modo,” “le rare volte in cui sono uscita ho cercato di curarmi anche se mi sembrava quasi inutile”. In alcuni casi l’adottare un abbigliamento più casual è stato vissuto come positivo nel senso di una maggiore autenticità in altri con dispiacere e senso di perdita.
Ho poi cercato ricerche sull’argomento e ho trovato un interessante studio di TOG che per celebrare l'apertura del loro nuovo spazio di lavoro creativo, Liberty House, ha commissionato un sondaggio con 2.000 impiegati nel Regno Unito per esplorare gli atteggiamenti nei confronti della moda, del guardaroba da lavoro e dell'ambiente di lavoro post-pandemia.  I dati sono stati analizzati dalla dottoressa Carolyn Mair (autrice del libro The Psychology of Fashion), e sono presentati in un report che puoi trovare qui. 
Lo studio è particolarmente incentrato sull’analisi dell’abbigliamento adottato durante la pandemia e le ipotesi di abbigliamento che saranno adottate post, senza soffermarsi troppo sugli stati emotivi prodotti dai vestiti indossati.
La ricerca ha rilevato che il comfort è stato considerato la massima priorità per l'abbigliamento da lavoro, seguito dal bisogno di apparire professionali e la necessità di vestirsi per adattarsi ai colleghi.
I lavoratori si sono adattati alla situazione e sebbene l'athleisure sia diventata la tendenza nel lavoro da casa (il 42% delle persone ha affermato di aver indossato pantaloni della tuta durante il lavoro a casa) gli intervistati hanno dichiarato che non l’avrebbero adottato in ufficio dopo la pandemia (solo il 4% ha dichiarato che avrebbe continuato ad indossarlo), propendendo piuttosto per un approccio smart casual allineato al proprio stile personale.
Circa 1 intervistato su 3 (29%) ha affermato che non vede l'ora di tornare a nuovi abbinamenti e diversi outfit al rientro in ufficio. Oltre un terzo (34%) degli intervistati ha detto che avrebbe comprato vestiti mentre solo meno di un terzo (31%) ritiene che i vestiti nuovi sarebbero un “bel modo per festeggiare la fine del lavoro domestico a tempo pieno ”.

Conclusioni

Dalla ricerca mi sembra emergere uno scenario nel quale casa e lavoro continueranno ad avere codici distinti in termini di dress code che saranno però più vicini di quanto non siano oggi.
Mi pare che in questa ottica il driver nelle nostre scelte stilistiche sia il contesto, semplificando molto: a casa la tuta, a lavoro la giacca, etc. con il conseguente pensiero quando tornerò al lavoro metterò….e nel mentre rischiamo di sentirci frustrati perché nel frattempo l'abbigliamento che indossiamo definisce il nostro standard, quello che facciamo, quello che sentiamo, come ci vediamo.
E se spostassimo il driver dal contesto all’attività cosa cambierebbe?
Vale a dire anziché considerare nella scelta dove sono, considero cosa faccio e quindi  se sono a casa e sto lavorando, posso aiutare il mio cervello a lavorare meglio vestendomi di conseguenza dando la priorità all’efficienza (mi riferisco al tema Enclothed Cognition) per tornare a dare la priorità alla comodità, con abiti morbidi, nel momento in cui termino di lavorare.
E se poi sposto ancora il punto di vista dall’attività al mio io, vale a dire dal cosa faccio al chi sono in questo momento/contesto/situazione cosa cambia?
Ecco qui secondo me sia crea un’opportunità interessante, un cambiamento più ampio che integra le diverse parti del nostro sé lasciando spazio ad un compromesso che tiene insieme l’efficacia (del cosa faccio), la comodità (del dove sono), con l’effetto di aumentare le nostre possibilità di azione e il nostro benessere.



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ConversAzioni allo specchio

27/3/2021

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Ho inaugurato il ciclo "ConversAzioni" con quelle davanti al guardaroba (che trovi qui ConversAzioni) e da qui proseguo con quelle davanti allo specchio. Ti sei mai chiesta con quali conversazioni ti guardi allo specchio?
Prova a fare questo esperimento: mettiti davanti allo specchio e ascolta la conversazione che arriva e poi confrontala con quelle che ti propongo di sotto.
Si tratta di queste:
- Sono uno schianto.
- Sto che è una favola.
- Questo colore mi dona proprio.
Oppure di queste:
- Sono sempre così disordinata.
- Sono un disastro.
- Con questo colore non mi si può guardare.
Sappiamo bene che le parole sono generative, e noi siamo esseri linguistici, la qualità della nostra vita e del nostro benessere dipende da come ce la raccontiamo.
Dal pensiero, alla parola, al rilascio di neurotrasmettitori, questa è la sequenza che può portarci a stati d’animo piacevoli e sentimenti di sicurezza verso noi stessi o al contrario stati d’animo di malessere e senso di insicurezza.
Vale la pena davanti allo specchio allenarsi a buone “ConversAzioni”, come fare?
Prendiamole una ad una e analizziamole insieme.

Sono sempre così disordinata
Mi sembra un po’ esagerato usare il “sempre”, tecnicamente vuol dire usare un “quantificatore” che ha la funzione di dare un'informazione su quanto è grande l'estensione di un’affermazione.  "Sempre" non è un quantificatore realistico e soprattutto “sempre così” è una generalizzazione, possiamo allora porci qualche domanda che vada a relativizzare, del tipo:
- Sempre, sempre? In cosa sono disordinata?
  •  Quando indosso abiti stropicciati, mi sento disordinata.
  •  Quando mi metto più più strati addosso mi sento disordinata.
  •  Quando non uso certi prodotti per i capelli mi vedo disordinata.
Cosa è cambiato?
Ho relativizzato esplicitando condizioni e comportamenti specifici e ho sostituito il “sono” con il pensiero di come mi sento o con la descrizione di come mi vedo.
In questo modo il mio umore sarà forse più lieve e mi offro la possibilità di agire in modo diverso, ad esempio stirando i miei abiti, limitando il numero di strati che indosso e motivandomi a usare certi prodotti per i capelli, mente nella prima frase lo spazio di fare azioni diverse era annullato sia per la mancanza di suggerimenti sia per lo stato emotivo.
 
Sono un disastro
Anche qui stiamo ragionando sull’essere e abbiamo visto nel precedente caso che riferirci al nostro essere con generalizzazioni, se negative, è dannoso. Allora scendiamo nel particolare, chiedendoci:

- Cosa me lo fa dire (la pettinatura, il trucco, l’abito)?
  • Le occhiaie sotto gli occhi mi danno l’aria stanca.
Cosa è cambiato?
Scendere nello specifico mi ha permesso di individuare che, per me, sono le occhiaie a farmi vedermi così, mi fa passare dal pensare di essere “un disastro” al fatto che quando mi vedo con l'aria stanca non mi piaccio e così potrò fare qualcosa per prendermi cura di quella stanchezza.

Con questo colore non mi si può guardare
Anche qui stiamo generalizzando un po’, colore è vago, sappiamo che ci sono moltissime sfumature, possiamo quindi impegnarci ed essere un po’ più precise
- 
Quale tonalità? Tutte di quel colore? Ci sono capi che di quel colore mi stanno bene?
  • Con maglie di questa tonalità vedo spento il colorito.
Cosa è cambiato?
Ho individuato che il problema per me non è il colore tout court ma una certa tonalità, e che la questione riguarda il colorito spento, potrò così dare una possibilità a quel colore provando altre sfumature o archiviare la questione con il fatto che quella sfumatura spegne il mio colorito.

Possiamo concludere che buone strategie per le nostre ConversAzioni allo specchio siano:
  • non generalizzare attribuendo a tutto il nostro essere considerazioni che a ben guardare riguardano solo alcune sfere,
  • indagare il nostro pensiero chiedendoci “cosa me lo fa dire”, “quando”, “in che modo”, etc.,
  • riformulare nella modalità più specifica e precisa.
In questo modo avremo conversazioni più gentili, che hanno buone possibilità di produrre via, via pensieri più gentili, stati d’animo più sereni e maggiore autostima e senso di piacere verso noi stesse.  
 
Se vuoi approfondire il tema trovi alcuni articoli del Blog nella categoria Pensiero E Linguaggio
Ah e per il colore il servizio Dai Forma e Colore al tuo stile prevede la pillola colore che puoi trovare qui
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Se i colori si presentassero

25/3/2021

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Dopo aver presentato il modo in cui sono descritte le forme nel Lessico dell’Abbigliamento concludo con l’esemplificazione di come sono presentati i colori, per i quali è presente un quaderno allegato al Kit dei teli colorati che descrive 12 colori principali, più 25 sfumature per le quali viene proposta una modulazione di significato.
In questo modo l’analisi del colore consente di completare la lettura anche dal punto di vista simbolico.
Nella formazione al metodo Dai Forma e Colore al tuo Stile viene presentata nel dettaglio la metodologia di lavoro.
Di seguito è esemplificato come nel quaderno sono presentati i 12 colori principali, con il riferimento al codice RGB, all’associazione simbolica, agli aspetti psichici, quando il colore è un alleato e quando evitarlo e infine l’effetto che produce nell’abbigliamento.
Ho scelto i 2 colori non colori: bianco e nero!
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BIANCO
RGB:255-255-255
Associazione simbolica: il bianco risulta dalla somma di tutti i colori per questo rappresenta la totalità, la compiutezza, dato che mostra (sia il pulito, sia lo sporco) è simbolo di trasparenza, ci si può fidare perché è tutto in vista. Altri simboli riguardano la purezza, l'innocenza, la saggezza per i suoi collegamenti con il divino, la santità e la vecchiaia.
Aspetti psichici: ha un effetto anestetizzante (un tempo negli ospedali psichiatrici le pareti come le camicie di forza erano bianche per abbassare la temperatura emotiva e tenere i pazienti, sedati), inibisce l'azione (è un colore che si sporca facilmente), può aiutare a fare chiarezza laddove ci sia confusione, se eccessivo può mettere distanza creando un senso di santità/illuminazione. Una preferenza per questo colore indica avvicinamento al pensiero, alla spiritualità, all'evoluzione, un'avversione indica l'interesse per aspetti concreti e materiali.
É un alleato: quando serve lucidità di pensiero, per avere la mente sgombra e andare dritti al punto, mostrare la propria trasparenza e il proprio valore.
Quando evitarlo: se non si vuole apparire inavvicinabili, freddi e insensibili, elitari.
Nell'abbigliamento: dona un'immagine raffinata e di prestigio.
NERO
RGB: 0-0-0
Associazione simbolica: è un colore con luminosità nulla, senza tinta, per questo viene associato primariamente al buio, alle tenebre, assumendo così significati minacciosi, di pericolo, mistero, paura ma anche di privazione dei sensi (es. colore di ordini religiosi).  Il nero è anche associato al potere (abiti delle armi e dei nobili), raffinato ed elegante (abiti da sera e smoking), un colore che simboleggia al tempo stesso gli opposti austerità (abiti religiosi) e seduzione.
Aspetti psichici: dal momento che assorbe tutta la luce e non riflette consente di proteggersi, nascondersi, mettere una barriera tra il dentro e il fuori, per questo infonde in chi lo indossa un senso di protezione, nascondimento e in chi lo osserva distanza e soggezione. A livello energetico tende ad assorbire e devitalizzare. Una preferenza indica serietà o al contrario ribellione dalle norme, il bisogno di proteggere la propria energia, estremismo (tutto o niente). L’avversione può indicare difficoltà con il potere, desiderio di liberarsi da blocchi, voglia di uscire dal guscio e di manifestare la propria vitalità.
É un alleato: per comunicare autorevolezza, se si ha la necessità di mettere delle distanze, per comunicare efficienza, rispetto, raffinatezza.
Quando evitarlo: quando occorre sentirsi in contatto con l'interlocutore, quando si ha un tono dell'umore tendente alla malinconia o si ha bisogno di recuperare energia.
Nell'abbigliamento: offre un'immagine seria ed elegante.
​Se il colore ti appassiona e sei interessata a conoscere i tuoi colori questo servizio fa per te.
Se sei un professionista del mondo dell'immagine, della moda o del benessere e vuoi inserire il colore nel tuo lavoro qui trovi info
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Se il Jeans si presentasse

24/3/2021

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òPer rendere più comprensibile cosa sia il Lessico dell’Abbigliamento e come è strutturato ho pensato di esemplificarlo attraverso la descrizione di un elemento: il jeans.
Il Lessico è costituito da una serie di voci, ciascuna delle quali descritte secondo alcuni parametri che sono:
  • Classe di appartenenza: si tratta della macro categoria di riferimento, che può riguardare i pattern dei tessuti, la tipologia dei tessuti, gli indumenti e la vestibilità, accessori (scarpe, borse, bijoux).
  • Storia: si tratta degli elementi salienti a livello storico per inquadrare l’elemento nel contesto di nascita e diffusione e comprenderne così gli usi e le mode.
  • Associazioni simboliche: si tratta dei principali significati associati all’elemento derivanti dall’excursus storico e culturale.
  • Cosa trasmette e infonde: è la sintesi di associazioni simboliche e percettive.
 
E' un po' come se attraverso la propria scheda ogni elemento si presentasse, ed ecco qui quello che il Jeans racconterebbe di sé.
Classe di appartenenza: indumento.
Storia: precursore del jeans, nel 1400, pare fosse una tela di colore blu simile al fustagno usata per confezionare i sacchi per le vele delle navi prodotta a Chieri (in provincia di Torino) esportata attraverso il porto di Genova. All’epoca si usava dare ai tessuti il nome del luogo di produzione e si ritiene che blue-jeans derivi da bleu de Gênes (blu di Genova). Secondo altre versioni il denim nasce a Nîmes, in Francia, in questo caso il nome deriverebbe da “de nimes” poi diventato denim.
Fu proprio a Genova che fu cucito il primo paio di pantaloni fatti con quel tessuto robusto e blu indigo e nel  1873 un sarto del Nevada, Jacob W. Davis, userà il denim per realizzare un paio di pantaloni commissionati da una donna per il marito. La richiesta era che dovevano essere molto resistenti perché servivano all’uomo  per spaccare la legna. Ben presto Davis si trovò sommerso dagli ordini, sopraffatto dalle numerose richieste, si rivolse ad un mercante della zona, Levi Strauss, proponendogli un accordo, iniziò così la fortuna del jeans.
Nel 1935 viene lanciato il primo jeans da donna. Nel 1937 appare per la prima volta sulle pagine di Vogue, entrando così nella storia della moda,
Saranno gli anni '50 che segneranno il passaggio da abito da lavoro ad indumento alla moda, complice il fatto che furono indossati da James Dean in "Gioventù Bruciata". Il jeans diventa così simbolo di ribellione alle convenzioni sociali. Parallelamente in Russia compaiono a Mosca, nel 1957, in occasione del Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti. All’epoca possedere un paio di jeans di marca significava essere in buone condizioni economiche. Il governo ne contrastò la diffusione, vennero proibiti e chi li indossava rischiava di essere espulso dall’università o perdere il posto di lavoro. I jeans divennero presto un simbolo di libertà e successo.  Si sviluppò un mercato di contrabbando e divenne noto alla cronaca, nel 1961, il caso di  Rokotov e Faybishenko, condannati alla pena di morte, uno dei capi d'accusa era: traffico di jeans. In loro onore in America è comparsa una marca di jeans con i loro nomi: Rokotov&Fainberg.
Gli anni ’60 sanciscono l’inserimento definitivo nell'abbigliamento quotidiano, verso la fine degli anni '70 si affermano i modelli ampi a zampa e nei primi '80, grazie all’introduzione dell'elastam, diventano un simbolo glamour e di sensualità. Gli anni '90 con il grunge vedono la diffusione in modelli sdruciti, nei 2000 si affermano i modelli skinny, mentre oggi troviamo un gran numero di vestibilità, soprattutto più morbide e over.
Associazioni simboliche: rappresentano il casual per eccellenza, risultando comodi e informali, inizialmente associati al concetto di robustezza, utilità e lavoro, sono passati poi ad essere simbolo di ribellione, cambiamento e successo (l’utilizzo nel cinema americano e le vicende in Russia), fino ad essere trasversali a tutte le età, classi sociali, sesso, professioni, ruoli, luoghi geografici. Al jeans il merito di essere al di sopra di ogni differenza.
Cosa trasmette e infonde: per la consistenza del tessuto, il colore e gli usi ed i costumi, trasmette informalità, comodità, uguaglianza e vicinanza.
Stagione interna: Autunno. Sebbene nel tempo abbia attraversato diversi significati e trasformazioni, viene presa come Stagione Interna la funzione per cui l’indumento è nato, vale a dire abito resistente da lavoro per impedire lo sporco.
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L’obiettivo del Lessico è di aumentare la consapevolezza circa la personalità degli abiti che teniamo nel nostro armadio sceglierli con intenzione, anche nei nuovi acquisti, e usarli per esprimerci autenticamente.
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La teoria che sta dietro il Lessico dell’Abbigliamento

22/3/2021

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Hai mai pensato a come formuliamo un’impressione? Cosa ci fa attribuire determinati aggettivi ad un’immagine e suscitare sentimenti di piacere o fastidio?
Formuliamo giudizi continuamente eppure siamo poco consapevoli di come questo avvenga e soprattutto tradurlo in parole non è così semplice.
È difficile tradurre in parole le sensazioni che affiorano, eppure nominare è un atto importantissimo, quello che nominiamo distinguiamo e quello che distinguiamo possiamo utilizzare, più  nomi possediamo, più possibilità di azione abbiamo.
Allora entriamo nel merito della questione e vediamo da cosa dipende il modo in cui arriviamo a delle impressioni.
Un modo di spiegare il fenomeno è quello olistico (Asch) è un modello di tipo gestaltico, per cui l’impressione è generata da un effetto globale, la figura viene vista come unità, un insieme di caratteristiche che interagendo danno luogo ad una rappresentazione e ad un significato.
Altro modo di vedere la questione è quello del continuum (Fiske e Neuberg) che prevede un susseguirsi di fasi, per cui si passa da un’impressione generale ad una via via più approfondita, attraverso azioni cognitive di ragionamento e confronto.
Altro modo ancora è quello del ricordo (Smith e Zarate) per cui l’immagine viene confrontata con dei modelli che conserviamo in memoria.
E per finire il modello dell’algebra cognitiva (Anderson) secondo il quale ogni tratto possiede un significato. L’impressione finale che ricaviamo dai singoli tratti che caratterizzano una persona è una combinazione algebrica delle valutazioni associate a singoli tratti.
Ed è proprio quest’ultimo modello che fa da cornice di riferimento teorico al Lessico dell’Abbigliamento all’interno del quale offro proposte di decodifica per: forme geometriche e pattern tessuti, tipologie di tessuti, tagli e vestibilità degli abiti, principali capi d’abbigliamento, accessori.
Si tratta proprio di un vocabolario con la descrizione per ogni elemento di cosa suggerisce sulla base della sua struttura e dei simboli associati. Come dicevo si tratta di una proposta di significato e non una definizione assoluta perché l’assunto di base del Lessico dell’Abbigliamento è che c’è un livello d’interpretazione che condividiamo a livello generale e riguarda la simbologia degli elementi e anche dei bias di cui siamo portatori, eh sì anche loro fanno la loro parte, ma di questo ne parlerò un’altra volta. E poi c’è un livello personale che riguarda i contesti e la storia di ciascun osservatore che crea infinite sfumature.
Condividere un lessico significa dare dei nomi, collegare dei significati e offrire la possibilità di descrivere e utilizzare quei significati per comunicare, creando innanzitutto un’occasione di espressione e benessere per sé e poi a seguire di trasmissione di informazioni verso l’esterno.
Se l’argomento ti interessa è inserito nella consulenza Dai Forma e Colore al tuo Stile, se sei un professionista interessato ad integrare questo strumento nella tua pratica qui trovi info
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