Il rapporto che ho oggi con i vestiti è sereno, un percorso che è partito dal piacere è passato dall’insofferenza, all’adattamento per arrivare oggi ad una buona soddisfazione.
Nell’album delle foto di famiglia ho un immagine che mi ritrae all’età di 2-3 anni in spiaggia con addosso il prendisole di mia mamma che avevo sfilato dall’asta dell’ombrellone e avevo indossato per gioco e per farmi vedere. Ma di quell’episodio e della sensazione, che credo essere stata di piacere perché nella foto ero sorridente e felice, non ho un ricordo nella memoria, si tratta di un episodio fissato in un’istantanea e presente nei racconti divertiti dei miei familiari. Se faccio appello alla mia memoria, il primo ricordo che affiora è intorno ai 5-6 anni di un vestito di velluto a costine blu che desideravo che mia mamma mi comprasse, eravamo ai grandi magazzini Marus, mi piaceva tantissimo, non so se si fosse trattato di una questione di costo o cosa non avesse convinto mia mamma che non me lo comprò, ci rimasi malissimo, ma non dissi nulla, forse mia mamma non aveva neanche percepito il mio interesse.
Poi per un lungo periodo il rapporto è stato piuttosto insofferente, senza ancora conoscerlo, avevo fatto mio il pensiero di Mabel la protagonista del racconto Il vestito nuovo di Virginia Woolf che era precisamente questo: “Quello che aveva pensato quella sera, quando all’ora del tè era arrivato l’invito della signora Dalloway, era che certo lei non avrebbe potuto essere alla moda …. ma perché non essere originale”.
Il mio credo per molto tempo è stato essere diversa. Da ragazzina intorno ai 15-16 anni quando tutti avevano le scarpe Timberland, io avevo un modello simile ma di Coveri, i jeans per i più erano Levi’s o Uniform, i miei erano Closed e poi più avanti è stato ancora più semplice proseguire per la strada dello strano-stravagante-insolito-poco visto perché non dovevo più mediare con nessuno per l’acquisto. La strategia della stranezza dei miei vestiti, direi per tutto il periodo degli studi universitari, nelle mie credenze mi permetteva di evitare il confronto il paragone con altri, ho capito poi quanto fosse una forma di tutela. Di fatto se indossi dei capi d’abbigliamento strani, il metro di valutazione si allontana dal concetto del bello- brutto, si deforma, si annacqua, muta in qualcosa di più soggettivo e meno discutibile.
L’ingresso nel mondo del lavoro, quello “serio” ha definito il passaggio ad un nuovo livello nel rapporto con i vestiti, che questa volta all’opposto è diventato piuttosto omologato, i miei abiti sono diventati una divisa: una giacca, un pantalone, o un tailleur, ho ancora un paio di esemplari di completi del brand Catherine Klee nell’armadio.
Se in tutto il periodo in cui ero una professionista junior la modalità divisa dei miei vestiti poteva funzionare, diventando senior era sempre più auspicabile un upgrade del mio guardaroba, e così ci sono stati i primi contatti con professionisti del settore immagine, le prime ricerche sul perché i vestiti facessero un effetto tanto diverso sulle persone, realizzando che non erano poi così poche quelle che lo vivevano come me.
E così vestito dopo vestito ho iniziato ad appassionarmi a loro, per quello che di buono possono fare a livello di estetica, di racconto e di rinforzo di sé.
In questi giorni ho lanciato un piccolo sondaggio tra le mie amiche, per avere qualche spunto in più sul tema, senza nessuna intenzione statistica ma solo di fissare alcune suggestioni di donne di una fascia d’età tra i 45 e i 65 anni. La domanda che ho posto è stata: mi dici in una parola il tuo rapporto oggi con i vestiti.
Le parole più gettonate sono state: conflittuale, umorale, essenziale, disincantato, annoiato, combattuto, in transizione positiva, appassionato, sereno, compulsivo.
Al netto di alcuni momenti fisiologici nella crescita che portano con sé caratteristiche comuni, penso in particolare all’adolescenza, per il resto l’analisi del rapporto con i vestiti e per estensione con l’immagine racconta molto sul nostro livello di soddisfazione personale, di benessere e di equilibrio in un preciso momento.
In questo contesto per me diventa molto interessante passare dal rapporto con i vestìti al rapporto con il vèstiti. Gli accenti sono “rafforzamenti e elevazioni del tono di voce” , qui lo spostamento diventa un’esortazione (vèstiti) a usare il guardaroba in modo attivo, nel libro propongo una distinzione tra mettere addosso e indossare, la prima è una condizione di disinteresse, apatia, incuria nei confronti dei vestiti, la seconda è una condizione di consapevolezza scelta e valore verso i componenti del proprio armadio.
Se il tema ti incuriosisce nel libro Vestiti. La psicologia dietro l’abbigliamento, trovi domande, spazi di riflessione, esercizi e un test per usare il tuo guardaroba come specchio della tua personalità, per esplorarla in modo semplice, immediato e divertente.