Sono consapevole che la pandemia ha effetti ben più gravi da analizzare rispetto alle ricadute sull’abbigliamento, tuttavia ritengo che il risultato complessivo del nostro benessere abbia tanto a che fare con le singole azioni che quotidianamente riteniamo trascurabili (come ad esempio scegliere cosa indossare) e che invece sommate tutte insieme hanno un peso importante.
Nelle mie riflessioni come sempre parto dalle mie sensazioni e dalla mia esperienza: sono state settimane in cui sono uscita molto poco e ho passato tanto tempo al computer, era già successo durante il primo lockdown ma la situazione era molto diversa, in quel frangente lo scenario era nuovo per tutti e c’era maggiore omogeneità.
A distanza di un anno ho riscontrato invece situazioni differenti, c’è chi alterna lavoro da casa a lavoro in presenza, c’è chi lavora da casa dall’inizio della pandemia, c’è chi tra alti e bassi non ha mai smesso di lavorare in presenza, in più c’è il vissuto di oltre un anno sulle spalle.
Mi sono allora chiesta come è cambiato il rapporto con la nostra immagine e con il nostro abbigliamento, quale impatto ha tutto questo con il nostro modo di lavorare e quale sul settore dell’abbigliamento in particolare del pronto moda.
Partendo da me, quello che ho osservato
Avendo avuto il negozio aperto da maggio dello scorso anno, tolta una parentesi a novembre per il secondo lockdown, ho sempre avuto una routine in cui mi preparavo per uscire e per avere la possibilità di incontrare e interagire “dal vivo” con un una clientela.
Il fatto di interromperla, avendo collegamenti via web, ha ridimensionato l’importanza della scelta di cosa indossare o meglio la scelta circa la varietà e la diversificazione.
Era come se, una volta individuati alcuni elementi “adatti” (quella maglia, quella camicia, quel pantalone) non servisse altro.
La faccenda a questo giro si è un po’complicata perché come dicevo essendoci situazioni molto diverse potevo trovarmi ad interagire con persone che lavoravano da casa, oppure erano in ufficio perché era il giorno in cui a rotazione gli spettava, oppure erano situazioni più “formali” che richiedevano la presenza di più interlocutori ed un setting particolare. Altre volte ancora il collegamento avveniva con la richiesta di tenere la webcam disattivata per svariati motivi.
Succedeva come è presumibile che sia che quando le persone si connettevano da casa l’abbigliamento era molto più casual, dall’ufficio più formale e la formalità aumentava ancora di più se eravamo in momenti istituzionali.
Nella maggior parte dei casi non sapevo “dove” avrei incontrato il mio cliente, non sapevo cioè nel momento in cui fissavo l’incontro se quel giorno si sarebbe collegato da casa o dall’ufficio e questo mi ha messo in una interessante posizione: gli abiti che avevo selezionato potevano non essere del tutto adeguati, perché io ero in casa e casa per il mio cervello vuol dire casual ma il mio interlocutore poteva non esserlo…
Ho così iniziato a vedere lo spazio in cui lavoravo non più come casa ma come ufficio e questo ha generato un atteggiamento diverso anche verso l’abbigliamento, l’effetto è stato bypassare la capsule che avevo creato e tornare a selezionare dall’intero guardaroba e ho notato che questo a sua volta mi ha invogliato a uscire di più da quel confine e ha prendermi delle pause dalla casa.
All’inizio l’avere più o meno gli stessi capi mi portava a usare gli stessi anche quando uscivo per commissioni e ancora più in generale a ridurre il numero di uscite facendo più attività casalinghe.
Il fatto cioè di indossare abiti da casa mi faceva fare più cose di casa, mentre avere un abbigliamento più formale mi ha portato a inserire nella mia giornata attività fuori casa.
Allargando il campo, le mie riflessioni
I confini sono importanti per creare i ruoli e i ruoli sono importanti per diversificare, per me individuare uno spazio della casa (specifico che spazio non vuol dire “stanza”) come ufficio mi ha permesso di vedere meglio il ruolo e l’abbigliamento è stato una conseguenza, si è arricchito in quantità e qualità.
Il troppo stroppia ma il poco restringe, penso alla capsule che avevo creato, era molto pratica al fine della scelta e della gestione (lavo/stiro) ma aveva generato in me un senso di pigrizia mentale che stava diventando anche fisica, la conclusione che ho tratto è che restringere il guardaroba (pochi capi, simili tra loro quanto a comfort) può restringe il campo di azioni ed esperienze, in soldoni: sto più a casa e faccio più cose di casa con il rischio alla lunga di provare frustrazione. Questo mi ha fatto ripensare al concetto di minimal e di “divisa” e mi sono chiesta se alla lunga questa potesse diventare fattore di riduzione anche nel pensiero. Io sono una fan del minimal perché ritengo che permetta di generare coerenza e un senso di sicurezza, d’altro canto ora mi chiedo cosa implichi in termini di chiusura, individualismo e rigidità … mi propongo di ritornarci su….
La cura di sé ha bisogno dello sguardo dell’altro, quando mi preparo per andare in negozio dove gli incontri sono “dal vivo” la cura che metto nel preparami è diversa, più precisa e attenta, idem quando ho un incontro anche virtuale ma che reputo “importante”, quando invece si tratta di un incontro di routine (incontri con chi ho familiarità), o lo sguardo dell’altro non c’è (webcam spenta) o non lo percepisco (andare a fare la spesa, dove gli sguardi sono di sfuggita e di estranei) la mia cura diminuisce. Tutto questo mi fa pensare che ci sono sguardi e sguardi nel generare i nostri comportamenti e che forse il nostro sguardo non è sempre sufficiente a motivarci alla cura o almeno il mio non lo è stato.
Sono sempre stata una sostenitrice di “l’importante è piacersi”, “quello che scegliamo nel nostro abbigliamento dipende solo da noi”, “piacere agli altri è secondario”, ora mi sorprendo a pensare che l’altro conta e questo non è un male semmai una spinta gentile …. mettendoci in mostra ci vediamo, nel senso che “compariamo” anche a noi stessi e forse non mostrandoci rischiamo via, via di scomparire.
Le nostre abitudini generano i nostri standard e questi condizionano il nostro comportamento: se mi abituo ad indossare la tuta a casa e sto a casa tanto tempo questo diventerà il mio standard per l’abbigliamento anche oltre le mura domestiche con quali effetti? Su questo punto ho voluto confrontarmi con altri punti di vista che riporto di seguito.
Lo “stile casalingo” quali effetti?
Mi sono confrontata con alcuni colleghi e amici per esplorare il percepito e comprendere quali effetti sta producendo, sulla cura di sé, lo stare in casa con un abbigliamento comodo, per un tempo prolungato.
Ho allora fatto un piccolissimo sondaggio, chiedendo ad una ventina di amici e colleghi (17 donne e 3 uomini) come fosse il loro livello di cura nel prepararsi per uscire a seguito di un periodo prolungato di lavoro/permanenza in casa.
Il quesito era: quando esci, dopo periodo prolungato a casa, ti vesti con più cura o con meno cura del solito?
Il 35% ha dichiarato con più cura, il 65% con meno cura. I commenti associati alla risposta sono stati: “divento meno esigente nella ricerca dell’abito dopo aver passato molto tempo a casa”, “metto sempre le stesse cose, raramente scelgo qualcosa di diverso dal solito”, “quando a casa indosso la tuta, tendo ad usarla anche per uscire curandomi di meno”, “ahimè mi vesto sempre allo stesso modo,” “le rare volte in cui sono uscita ho cercato di curarmi anche se mi sembrava quasi inutile”. In alcuni casi l’adottare un abbigliamento più casual è stato vissuto come positivo nel senso di una maggiore autenticità in altri con dispiacere e senso di perdita.
Ho poi cercato ricerche sull’argomento e ho trovato un interessante studio di TOG che per celebrare l'apertura del loro nuovo spazio di lavoro creativo, Liberty House, ha commissionato un sondaggio con 2.000 impiegati nel Regno Unito per esplorare gli atteggiamenti nei confronti della moda, del guardaroba da lavoro e dell'ambiente di lavoro post-pandemia. I dati sono stati analizzati dalla dottoressa Carolyn Mair (autrice del libro The Psychology of Fashion), e sono presentati in un report che puoi trovare qui.
Lo studio è particolarmente incentrato sull’analisi dell’abbigliamento adottato durante la pandemia e le ipotesi di abbigliamento che saranno adottate post, senza soffermarsi troppo sugli stati emotivi prodotti dai vestiti indossati.
La ricerca ha rilevato che il comfort è stato considerato la massima priorità per l'abbigliamento da lavoro, seguito dal bisogno di apparire professionali e la necessità di vestirsi per adattarsi ai colleghi.
I lavoratori si sono adattati alla situazione e sebbene l'athleisure sia diventata la tendenza nel lavoro da casa (il 42% delle persone ha affermato di aver indossato pantaloni della tuta durante il lavoro a casa) gli intervistati hanno dichiarato che non l’avrebbero adottato in ufficio dopo la pandemia (solo il 4% ha dichiarato che avrebbe continuato ad indossarlo), propendendo piuttosto per un approccio smart casual allineato al proprio stile personale.
Circa 1 intervistato su 3 (29%) ha affermato che non vede l'ora di tornare a nuovi abbinamenti e diversi outfit al rientro in ufficio. Oltre un terzo (34%) degli intervistati ha detto che avrebbe comprato vestiti mentre solo meno di un terzo (31%) ritiene che i vestiti nuovi sarebbero un “bel modo per festeggiare la fine del lavoro domestico a tempo pieno ”.
Conclusioni
Dalla ricerca mi sembra emergere uno scenario nel quale casa e lavoro continueranno ad avere codici distinti in termini di dress code che saranno però più vicini di quanto non siano oggi.
Mi pare che in questa ottica il driver nelle nostre scelte stilistiche sia il contesto, semplificando molto: a casa la tuta, a lavoro la giacca, etc. con il conseguente pensiero quando tornerò al lavoro metterò….e nel mentre rischiamo di sentirci frustrati perché nel frattempo l'abbigliamento che indossiamo definisce il nostro standard, quello che facciamo, quello che sentiamo, come ci vediamo.
E se spostassimo il driver dal contesto all’attività cosa cambierebbe?
Vale a dire anziché considerare nella scelta dove sono, considero cosa faccio e quindi se sono a casa e sto lavorando, posso aiutare il mio cervello a lavorare meglio vestendomi di conseguenza dando la priorità all’efficienza (mi riferisco al tema Enclothed Cognition) per tornare a dare la priorità alla comodità, con abiti morbidi, nel momento in cui termino di lavorare.
E se poi sposto ancora il punto di vista dall’attività al mio io, vale a dire dal cosa faccio al chi sono in questo momento/contesto/situazione cosa cambia?
Ecco qui secondo me sia crea un’opportunità interessante, un cambiamento più ampio che integra le diverse parti del nostro sé lasciando spazio ad un compromesso che tiene insieme l’efficacia (del cosa faccio), la comodità (del dove sono), con l’effetto di aumentare le nostre possibilità di azione e il nostro benessere.