Con questo post mi avventuro nel campo dello styling non di abiti ma dei nostri corpi, non ad opera della chirurgia estetica ma ad un livello più profondo, arrivando al DNA, e in una prospettiva temporale più lunga, molto più lunga.
Il punto di partenza è una notizia di qualche anno fa sulla scoperta di un gene che ci ha regalato un look gentile, il gene BAZ1B architetto del volto umano (ne ho parlato qui).
Il risultato di questo studio, spiegavano i ricercatori, fornisce una prova sperimentale a sostegno della teoria dell’auto-domesticazione (self domestication), secondo la quale i nostri antenati hanno scelto di volta in volta come compagni soggetti più socievoli e cooperanti, con tratti facciali più morbidi e caratteristiche che favoriscono la comunicazione non verbale.
Questo potrebbe significare che i nostri driver nella scelta, sin dalla notte dei tempi, siano stati gli elementi che ci ingentilivano, ci rendevano più eleganti e attraenti.
In altre occasioni ho pensato al contrario che l’evoluzione non guardasse affatto all’estetica (ne ho parlato qui). Mi ero fatta questa opinione partendo da uno studio dell'azienda Maple Holistics che aveva ideato dei modelli che rappresentano una possibile evoluzione fisica degli uomini causata dall'uso prolungato dei dispositivi tecnologici.
Lo studio e le conclusioni sembravano un po’ semplicistiche dal momento che la biologia al contrario della cultura ci mette millenni a realizzare i suoi cambiamenti, cercando un po’ più approfonditamente ho visto una simulazione futuristica delle fattezze del capo e del volto dell’uomo ad opera del designer Nickolay Lamm e del genetista computazionale Alan Kwan.
Dai loro calcoli l’uomo diventando ancor più sapiens avrà una testa di maggiori dimensioni e un cervello più voluminoso, e nel volto, per affrontare cambiamenti climatici in fatto di luce e atmosfera, fronte più spaziosa, occhi più grandi, palpebre più spesse e narici più ampie.
Mi è sembrato tutto molto plausibile, in fondo la natura fa il suo corso, il suo compito è quello di renderci più efficaci ed armonici nell’ambiente in cui ci muoviamo, la sua indole adattiva la porta a modificarsi e modificarci per consentire protezione, resistenza e performance ragionando in un’ottica di funzionalità più che di estetica.
Dalla scoperta del gene BAZ1B mi viene da dire che la natura fa il suo corso rispetto alle intenzioni del nostro genere, se fino ad ora è stato quello di crescere e svilupparsi puntando sulla relazione, lavora in un certo modo, rendendo cioè il nostro look gentile e aggraziato, se è quello di sopravvivere in contesti ostili lavora in un altro e di conseguenza il risultato sull’immagine sarà diverso.
Approfondendo ancora un po’ l’argomento scopro che il cambiamento descritto nella simulazione di Lamm e Kwan non era imputato solo al corso della biologia, ma anche a modifiche introdotte dall’uomo stesso nel DNA. Questo concetto dell’uomo che si ridisegna mi ha davvero colpita, mi sono chiesta fin dove ci si può spingere e proseguendo nella mia ricerca sono arrivata al pensiero dell’accademico e futurista Juan Enriquez che in una sua Ted del 2016 “What will humans look like in 100 years?” parte dalla domanda: “È etico far evolvere il corpo umano?”.
La riassumo qui per sommi capi. Enriquez parte dall’esempio della prima protesi, una mano presa da un’armatura, indossata a seguito di un incidente in battaglia e prosegue nel racconto di come la tecnologia oggi sia arrivata al punto di integrare una protesi all’osso, al muscolo, alla pelle e si sta muovendo per connetterla al cervello.
Ma se qui stiamo parlando di protesi che ci aiutano laddove c’è una disabilità, lo scenario più ampio di utilizzo è quello di potenziare le abilità: vista, udito, etc. e andando ancora più lontano lo scenario successivo è di fare tutto ciò non dall’esterno, ma riprogrammando le nostre cellule. Enriquez si chiede fino a che punto sia etico potenziare il corpo umano, la risposta che fornisce e che se crediamo, e lui spiega perché dovremmo, che l’estinzione sia ordinaria e naturale, allora diventa un imperativo morale differenziare la specie per poter vivere in altri contesti e per farlo contempla manipolazioni genetiche.
Nella sua disamina individua quattro livelli di civiltà. Nel quarto livello ipotizza che si possa arrivare ad impiantare la coscienza in un corpo/sistema, che ora non riusciamo ancora immaginare, molto diverso dal nostro e che potrebbe durare nello spazio per decine di migliaia di anni. Ma perché dovremmo voler fare questo si chiede a fine Ted Enriquez, la risposta che fornisce è spiazzante, dice: “sarebbe il selfie definitivo”. Una foto che ci rappresenta tutti, come umanità, e dice ad ogni latitudine: “questi siamo noi”. La foto ci rappresenterebbe come specie, testimonierebbe la nostra resilienza, la capacità di sopravvivere, di espanderci. Enriquez come possiamo immaginare è dunque a favore del ridisegnare i nostri corpi a livello di genetica, conclude infatti dicendo che sarebbe immorale non cambiare il nostro corpo, perché sarà questo, potenziato, modificato a permetterci di vivere, raggiungere, esplorare, luoghi che non arriviamo ancora a immaginare.
Non posso far altro che lasciare aperta la questione perché personalmente non riesco a farmi un’idea robusta in merito, un conto è immaginare il naturale corso dell’evoluzione, altra faccenda è pensare di intervenire attivamente diesegnandola per orientarla e definirla.
Immagino che a far pendere l’ago della bilancia pro o contro il design del DNA sia la propensione a vederci o meno a raccogliere la sfida che il progresso ci offre e andare oltre la paura per qualcosa che, parafrasando Enriquez, oggi non possiamo neanche sognare ma che le future generazioni sogneranno.