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Dna Styling

21/4/2024

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Con questo post mi avventuro nel campo dello styling non di abiti ma dei nostri corpi, non ad opera della chirurgia estetica ma ad un livello più profondo, arrivando al DNA, e in una prospettiva temporale più lunga, molto più lunga.
Il punto di partenza è una notizia di qualche anno fa sulla scoperta di un gene che ci ha regalato un look gentile, il gene BAZ1B architetto del volto umano (ne ho parlato qui).

Il risultato di questo studio, spiegavano i ricercatori, fornisce una prova sperimentale a sostegno della teoria dell’auto-domesticazione (self domestication), secondo la quale i nostri antenati hanno scelto di volta in volta come compagni soggetti più socievoli e cooperanti, con tratti facciali più morbidi e caratteristiche che favoriscono la comunicazione non verbale.
Questo potrebbe significare che i nostri driver nella scelta, sin dalla notte dei tempi, siano stati gli elementi che ci ingentilivano, ci rendevano più eleganti e attraenti.

In altre occasioni ho pensato al contrario che l’evoluzione non guardasse affatto all’estetica (ne ho parlato qui). Mi ero fatta questa opinione partendo da uno studio dell'azienda Maple Holistics che aveva ideato dei modelli che rappresentano una possibile evoluzione fisica degli uomini causata dall'uso prolungato dei dispositivi tecnologici.

Lo studio e le conclusioni sembravano un po’ semplicistiche dal momento che la biologia al contrario della cultura ci mette millenni a realizzare i suoi cambiamenti, cercando un po’ più approfonditamente ho visto una simulazione futuristica delle fattezze del capo e del volto dell’uomo ad opera del designer Nickolay Lamm e del genetista computazionale Alan Kwan.
Dai loro calcoli l’uomo diventando ancor più sapiens avrà una testa di maggiori dimensioni e un cervello più voluminoso, e nel volto, per affrontare cambiamenti climatici in fatto di luce e atmosfera, fronte più spaziosa,  occhi più grandi, palpebre più spesse e narici più ampie.
Mi è sembrato tutto molto plausibile, in fondo la natura fa il suo corso, il suo compito è quello di renderci più efficaci ed armonici nell’ambiente in cui ci muoviamo, la sua indole adattiva la porta a modificarsi e modificarci per consentire protezione, resistenza e performance ragionando in un’ottica di funzionalità più che di estetica.

Dalla scoperta del gene BAZ1B mi viene da dire che la natura fa il suo corso rispetto alle intenzioni del nostro genere, se fino ad ora è stato quello di crescere e svilupparsi puntando sulla relazione, lavora in un certo modo, rendendo cioè il nostro look gentile e aggraziato, se è quello di sopravvivere in contesti ostili lavora in un altro e di conseguenza il risultato sull’immagine sarà diverso.
Approfondendo ancora un po’ l’argomento scopro che il cambiamento descritto nella simulazione di Lamm e Kwan non era imputato solo al corso della biologia, ma anche a modifiche introdotte dall’uomo stesso nel DNA.  Questo concetto dell’uomo che si ridisegna mi ha davvero colpita, mi sono chiesta fin dove ci si può spingere e  proseguendo nella mia ricerca sono arrivata al pensiero dell’accademico e futurista  Juan Enriquez che in una sua Ted del 2016 “What will humans look like in 100 years?” parte dalla domanda: “È etico far evolvere il corpo umano?”.
​
La riassumo qui per sommi capi. Enriquez parte dall’esempio della prima protesi, una mano presa da un’armatura, indossata a seguito di un incidente in battaglia e prosegue nel racconto di come la tecnologia oggi sia arrivata al punto di integrare una protesi all’osso, al muscolo, alla pelle e si sta muovendo per connetterla al cervello.
Ma se qui stiamo parlando di protesi che ci aiutano laddove c’è una disabilità, lo scenario più ampio di utilizzo è quello di potenziare le abilità: vista, udito, etc. e andando ancora più lontano lo scenario successivo è di fare tutto ciò non dall’esterno, ma riprogrammando le nostre cellule. Enriquez si chiede fino a che punto sia etico potenziare il corpo umano, la risposta che fornisce e che se crediamo, e lui spiega perché dovremmo, che l’estinzione sia ordinaria e naturale, allora diventa un imperativo morale differenziare la specie per poter vivere in altri contesti e per farlo contempla manipolazioni genetiche.
Nella sua disamina individua quattro livelli di civiltà. Nel quarto livello ipotizza che si possa arrivare ad impiantare la coscienza in un corpo/sistema, che ora non riusciamo ancora immaginare, molto diverso dal nostro e che potrebbe durare nello spazio per decine di migliaia di anni.  Ma perché dovremmo voler fare questo si chiede a fine Ted Enriquez, la risposta che fornisce è spiazzante, dice: “sarebbe il selfie definitivo”. Una foto che ci rappresenta tutti, come umanità, e dice ad ogni latitudine: “questi siamo noi”. La foto ci rappresenterebbe come specie, testimonierebbe la nostra resilienza, la capacità di sopravvivere, di espanderci. Enriquez come possiamo immaginare è dunque a favore del ridisegnare i nostri corpi a livello di genetica,  conclude infatti dicendo che sarebbe immorale non cambiare il nostro corpo, perché sarà questo, potenziato, modificato a permetterci di vivere, raggiungere, esplorare, luoghi che non arriviamo ancora a immaginare.

Non posso far altro che lasciare aperta la questione perché personalmente non riesco a farmi un’idea robusta in merito, un conto è immaginare il naturale corso dell’evoluzione, altra faccenda è pensare di intervenire attivamente diesegnandola per orientarla e definirla.
Immagino che a far pendere l’ago della bilancia pro o contro il design del DNA sia la propensione a vederci o meno a raccogliere la sfida che il progresso ci offre e  andare oltre la paura per qualcosa che, parafrasando Enriquez, oggi non possiamo neanche sognare ma che le future generazioni sogneranno.



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Tutto il vuoto che ti serve

29/12/2023

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Di solito la fine dell’anno per me è sempre stato un periodo carico di energia, ispirazione, desideri e fiducia nel nuovo.
Quest’anno sembra fare eccezione, l’inconscio mi ha spinto ad autoregalarmi un mazzo di carte (intùiti) e così ho chiesto a loro e la risposta ha a che fare con il vuoto.
Allora ho cercato e raccolto le idee sul vuoto e quello che ho capito è che ha la potenzialità di essere riempito, che c’è un vuoto interiore ed un vuoto creativo, il primo è fatto di dolore, passività, noia, il secondo è fatto di passività attiva, di gestazione, di momenti di stop che anziché rallentare consentono di crescere.
Nella maggioranza delle culture orientali è sinonimo di possibilità, di intelligenza attenta non distratta dai pensieri, di capacità di individuare e distinguere le parti, anziché rappresentarle come fa la materia. La meccanica quantistica poi lo descrive come pieno di fluttuazioni energetiche generative di materia.

Nel mio percorso di ricerca mi sono imbattuta infine nel libro “Qualcosa” di Chiara Gamberale, da una recensione apprendo che la principessa “Qualcosa di troppo” sorpresa da un grande dolore rimane smarrita e inizia così a vagare per il regno dove incontra il Cavalier Niente che in compagnia di Madama Noia le darà insegnamenti sul valore del “non-fare”.

La tendenza del nostro tempo e nella nostra parte di mondo è certamente quella del fare e dell’essere pieni dentro e fuori. Dentro di pensieri, informazioni, sentimenti, opinioni, pregiudizi, stereotipi, fuori di beni materiali, tecnologia, oggetti, vestiti, etc.
Fare vuoto permette di lasciare spazio a qualcosa di nuovo, permette di spostarci dal fare all’essere e invertire una sequenza a rischio di inautenticità: faccio per avere per essere qualcuno ad una corrispondente al sé: sono, dunque faccio, quindi ho. La prima sequenza porta il rischio di partire da aspettative esterne, da qualcosa fuori di noi, in questo modo otteniamo e diventiamo ciò che “dovremmo”, la seconda parte dalle nostre caratteristiche, bisogni, desideri, in questo modo facciamo e otteniamo ciò che ci corrisponde.
 
In definitiva, cercherò di seguire il consiglio della carta “Prenditi il vuoto che ti serve”. Al momento ho ritrovato una passione che avevo un po’ tralasciato, la lettura delle carte e guadagnato la conoscenza di un libro nuovo che mi è venuta voglia di leggere.
Per la prima volta non farò bilanci né progetti, e il mio augurio non può che essere: tutto il vuoto che ti serve!


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Fabbricanti di futuri Possibili

23/4/2019

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Una delle parti del mio lavoro che amo particolarmente ha a che vedere con il futuro, con la possibilità di desiderarlo, di visualizzarlo e di accoglierlo.

Penso che ciascuno di noi sia un fabbricante di futuri possibili, penso che tutti abbiamo a disposizione, in modo molto democratico, una risorsa per fabbricare che è la nostra immaginazione e penso che purtroppo questa risorsa sia sottoutilizzata.
Una caratteristica del nostro cervello è che non distingue tra reale e immaginario, una volta che qualcosa l'abbiamo “vista” fuori da noi, nella realtà esterna, o dentro di noi, nella realtà interna immaginata, per il nostro cervello, che ne ha fatto un'esperienza, è la stessa cosa.
Quell'immagine e quella esperienza iniziano ad agire dentro di noi producendo delle sensazioni, può trattarsi di indifferenza, di noia, di paura, di gioia, di stupore, di rabbia, si tratta di tensioni che ci informano della connessione e del significato di quell'immagine per noi.

Un buon fabbricante, secondo me, è chi è capace di immaginare gli effetti di ciò che desidera perché questo consente di fare un salto di livello e attivare una spinta all'azione e trasformare un semplice desiderio in una visione da perseguire.
Ti faccio un esempio, con la mia immaginazione posso visualizzare la vincita di un premio o la riscossione di un'eredità e
sicuramente questo è un primo passo per comprendere cosa mi manca, ma se immagino ciò che posso fare con il denaro vinto o ereditato rendo più specifica questa nuova realtà e posso attivare un tensione, una spinta, che mi attiva ad agire per andare verso quelle condizioni di cui ho fatto esperienza.

L'immaginazione è quindi la sostanza per dare forma ai desideri, che danno luogo a diversi possibili futuri, infine la volontà di agire in una direzione piuttosto che in un'altra trasformerà le fantasie in visioni da perseguire. Le visioni sono cioè sogni in azione.

Ma qual è il futuro che merita di essere immaginato, desiderato, perseguito e accolto? Perché se è vero che le nostre facoltà ci consentono di desiderare e immaginare qualsiasi cosa e qualsiasi situazione (ad esempio di avere lineamenti diversi da quelli che abbiamo, di avere caratteristiche personali differenti, di vivere su un altro pianeta, di riavere accanto una persona cara che non c’è più, etc.) non tutte le opzioni sono “buone”, “giuste”, o “utili” per noi.

Ed ecco allora alcune domande per fabbricare il tuo futuro:
Quello che sto immaginando è in armonia con i miei valori, con le mie credenze, non lede a me o altri?
Quali costi/sacrifici sono disponibile a sostenere per raggiungere questa situazione?
Cosa accadrà se il mio desiderio sarà raggiunto e cosa accadrà se non lo sarà?

Infine, per comprendere se i tempi sono maturi, usa il motto di Kafka che diceva “lascia dormire il futuro come merita: se lo svegli prima del tempo, otterrai un presente assonnato”.

Se invece non hai ancora visualizzato il tu futuro qui trovi una scheda (la fabbrica dei desideri) che potrebbe fare al caso tuo.

Buona visione!
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