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Di me in me, con la stessa stoffa di sempre

26/6/2025

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In questo mese nel cucito mi sono dedicata ad un’attività nuova per me: le modifiche.
Si è trattato di capi che così com’erano confezionati non mi piacevano al 100% e così mi sono messa all’opera:  un vestito con un corpetto un po’ démodé l’ho sdoppiato in un completo (gonnellone e gilet), un paio di bluse dalle maniche lunghe sono diventate delle canottiere, pantaloni eccessivamente larghi sono diventati vagamente scampanati e poi infine alcuni capi richiedevano delle riparazioni, qualcosa da stringere e qualcosa da accorciare.
Si trattava di capi che per un motivo o per l’altro stavano lì inutilizzati, bloccati, impediti nella possibilità di avere una funzione, un ruolo, una vita insomma.
Nel modificare e riparare mi è sembrato così di prendermi cura non solo dell’oggetto in sé ma anche della sua storia tra passato e futuro, tra limiti e possibilità, tra vecchio e nuovo, e ho pensato che anche quando sembra che il nostro fare cambi radicalmente forma a osservare da vicino le differenze anziché amplificarsi si offuscano perché viene fuori che un cambiamento c’è ma rimane confinato nel  modo ma la sostanza resta.
Mi spiego meglio, un tempo partecipavo all’azione di modificare e in qualche misura aggiustare, solo che lo facevo in altro modo, i miei strumenti erano l’ascolto, le distinzioni, le domande, e con altra materia: i comportamenti, le emozioni i pensieri.
Oggi il mio modo sono le stoffe, i vestiti, le macchine per cucire, ma la sostanza è rimasta fedele ai suoi valori: partecipare alla realizzazione di un cambiamento con il fine di permettere a qualcosa di essere al meglio per il suo funzionamento.
Realizzarlo è stato importante perché ha acceso una luce su un filo conduttore, su un modo d’essere e sulle sue possibili declinazioni e questo, in una prospettiva più generale e astratta che non riguarda solo più me,  apre spazi di riflessione sulle nostre moltitudini espressive sulla possibilità di tenere insieme parti che solo ad uno sguardo disattento appaiono diverse. Questo filo conduttore a questo punto comprendo che non serve tanto a rassicurare sul fatto che siamo sempre noi, quanto a liberarci dall’idea che dobbiamo essere sempre uguali per esserlo.
E forse è proprio questo che ci tiene integri, anche nelle trasformazioni, non il rimanere sempre gli stessi, ma il cambiare forma rimanendo della stessa sostanza, proprio come quel vestito démodé che non mi convinceva troppo ma che sdoppiato e ricucito è diventato un completo nuovo ma con la stessa stoffa di sempre.
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Selfie, tra scatti e scarti

19/4/2025

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Qualche giorno mi stavo facendo delle foto con il cellulare in modalità selfie dovendole allegarle ad una presentazione e mi sono ritrovata in una situazione già vissuta, vale a dire scatto 4-5-6 foto e lì per lì non me ne piace nessuna, scelgo comunque quella che mi sembra la meno peggio, poi le foto rimangono lì nel cellulare e quando le riguardo qualche giorno dopo non mi sembrano poi così male, eppure sono sempre io, quella in foto e quella che giudica, allora cosa è cambiato?
Mi sono interrogata e sono arrivata ad alcune conclusioni:
  • Guardare vs. giudicare: quando ci scattiamo una foto e la guardiamo quello che facciamo non è solo guardarla bensì giudicarla  e sotto la lente della pressione del giudizio unita al risultato che vogliamo ottenere diventiamo molto severi e quello che altri non avrebbero nemmeno notato per noi diventa motivo di critica; dopo qualche giorno il giudizio si affievolisce diventando più benevolo così come la pressione sul risultato è così otteniamo una valutazione più positiva della nostra immagine;
  • Il peso delle aspettative: proprio per il risultato che ci proponiamo di ottenere (nel mio caso una bella foto da allegare alla mio bio) sul momento le aspettative sono elevate e rendono il giudizio particolarmente critico creando un circolo vizioso con il punto di sopra, successivamente con lo sciogliersi delle aspettative il giudizio si ammorbidisce;
  • L’illusione di poter avere di più/fare meglio: sul momento mentre scattiamo una foto abbiamo l’illusione di avere tutti gli scatti del mondo per catturare quello perfetto e così anche se il primo potrebbe funzionare ci diciamo che forse non è abbastanza, che si può fare meglio e questo spinge a non accontentarsi, qualche giorno dopo invece la spinta all’irraggiungibile perfezione lascia il posto al buonsenso e complice il distacco emotivo del momento si fa strada una maggiore obiettività;
  • Bias di familiarità: c’è poi un meccanismo cognitivo che fa sì che più guardiamo qualcosa, più diventa familiare e per questo più ci piace, ed ecco che qualche giorno dopo i nostri selfie che magari abbiamo intercettato qualche volta aprendo la nostra gallery sono diventati più amici e per questo più “belli”;
In definitiva quello che ho imparato da quest’analisi è che la nostra percezione non è fissa (un giorno mi vedo “inguardabile”, due giorni dopo “non male”) e che il punto critico non è tanto come veniamo nello scatto di un determinato momento quanto come ci guardiamo in quel momento.
Allora come fare per disinnescare la carica del giudizio allo scatto delle foto?
  • Abbassare il volume del giudizio:  per dirla con la teoria della discrepanza del sé (secondo lo psicologo Higgins ci sono tre livelli che caratterizzano il nostro sé: reale - come ci vediamo -,  ideale -  come vorremmo essere - , normativo  - come dovremmo essere) possiamo impegnarci ad abbassare il volume del sé normativo,  osservandoci in modo descrittivo, limitando cioè l’uso degli aggettivi e precisando in modo concreto quello che ci piace e non ci piace;
  • Favorire il distacco emotivo: dopo aver scattato qualche foto evitare di guardarle subito, lasciando passare un po’ di tempo per rivederle in un secondo momento in modo da non guardarle a caldo e lasciando che l’emozione si stemperi un po’;
  • Darsi un tempo circoscritto e un numero preciso di scatti per limitare l’effetto della ricerca della perfezione.
Da tenere a mente dallo scatto allo scarto!
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100% me

12/3/2025

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In questi primi dieci giorni di marzo 3 eventi hanno catturato la mia attenzione e uno dopo l’altro li ho messi in fila per riflettere sul quanto sia possibile assecondare il proprio stile e uscire indenni dal confronto con gli standard sociali che ci vogliono belli, eleganti, con caratteristiche socialmente desiderabili.
Gli eventi in ordine cronologico sono stati:  il 2 marzo Adam Sandler alla 97ª edizione degli Academy Awards nella quale si è presentato vestito con felpa e pantaloncini da basket, il 9 marzo Alessandro Michele, direttore creativo della Maison Valentino, alla sfilata parigina autunno/inverno 2025-26  ha ricreato l’ambientazione di un bagno con lavandini, specchi e armadietti da spogliatoio.
Infine il 10 marzo il talk “non è un paese per brutte” a cura di Valore D, che ha visto la partecipazione di Maura Giancitano, filosofa e scrittrice, come moderatrice e tre donne in rappresentanza di categorie soggette a stereotipi:  Lara Lago, giornalista e body activist, Loredana Lipperini, scrittrice, conduttrice radiofonica e attivista culturale e Nogaye Ndiaye, scrittrice e divulgatrice antirazzista.
Cosa hanno in comune i tre eventi?
Tutti parlano in un modo o nell’altro di bellezza, di canoni estetici, di cosa ci si aspetta nella nostra cultura occidentale, e di conseguenza di cosa sia opportuno e cosa non lo sia e dei possibili effetti nei casi di devianza dallo standard tracciato.
Sandler e Alessandro Michele hanno attirato giudizi divisi, nel caso di Sandler è stata apprezzata l’autenticità, la capacità di rimanere fedele a se stesso, qualcuno ci ha visto un atto politico (si veda la critica all’abbigliamento di Zelenskyy nell'incontro con Trump), qualcun altro si è semplicemente fatto una risata e qualcun altro ancora lo ha criticato, in primis il conduttore che lo ha paragonato ad un giocatore di poker della tarda ora notturna, che fosse una gag preparata oppure no, l’episodio fa riflettere,  Sandler stesso ha dichiarato di non interessarsi a quello che indossa, gli piace il suo look, si reputa una brava persona e questo è quanto.
Nel caso di Alessandro Michele chi lo ha elogiato ha colto il suo genio nel fondere il nuovo con il retrò e il massimalismo con l’ecletticità per esprimere da un lato la grande metafora dell’ossessione del tempo attraverso trasparenze, modelle non conformi ai canoni dell’età, e trovate di styling (capelli e volti tirati da elastici), dall’altro l’impossibilità di  spogliarsi delle maschere che ogni giorno indossiamo ed esprimere un sé autentico come dice lui stesso immune dalle determinazioni della vita.
Le critiche non sono certo mancate da parte di chi ha visto invece l’incapacità di fare qualcosa di nuovo, la brutalità e lo squallore dello scenario e dei capi stessi che non rappresenterebbero affatto lo stile e l’eleganza di Valentino Garavani fondatore della Maison.
Un messaggio lo lancia lo stesso Michele durante e a fine sfilata con lo slogan nella t-shirt “apollon-dyonisos” che sta a rappresentare due stili contrapposti:  la perfezione di Valentino verso il caos che caratterizza il suo estro.
Del talk di Valore D mi ha colpito in particolare un commento di un’ascoltatrice sull’importanza che dovrebbe avere “il  diritto alla trascuratezza”,  al quale le speaker rispondono sostenendo quanto sarebbe importante in un mondo che vuole le donne belle, brave e performanti che a venir valutate fossero le competenze, lasciando sullo sfondo tutto il resto,  di qui le considerazioni sull’opportunità, in un contesto di selezione, di omettere/non mostrare informazioni su di sé potenzialmente penalizzanti (sesso, etnia, caratteristiche fisiche) attraverso curricula anonimi e colloqui al buio. La risposta che hanno dato le invitate è stata un “no grazie”, bisogna essere più ambiziose, occorre puntare più in alto, in un cambio di mentalità e paradigma. Il punto di arrivo deve essere il venire viste nella totalità senza vedere cancellate parti di sé.

A questo punto tento una sintesi:
Adam Sandler e l’orgoglio di essere se stesso sempre, ovunque e comunque.
Alessandro Michele in modo analogo propone in un mondo apollineo il suo spirito dionisiaco, in definitiva anche qui il suo essere se stesso a qualunque costo.
Il talk di Valore D tra i diversi messaggi propone una sfida ambiziosa: non omettere nulla di sé per farsi guardare ed essere viste per chi si è nella propria totalità, in definitiva essere pienamente se stesse.

Ora ho due domande che mi girano per la testa: quanto è fattibile oggi, nella nostra cultura occidentale, con la nostra dotazione cognitiva piena di bias realizzare questo intento?
E in modo più provocatorio mi chiedo ma è davvero utile per noi mostrarci nella nostra totalità, ci fa davvero un buon servizio?
Non vorrei essere troppo pessimista ma sulle prime mi viene da dire che sia davvero un’impresa epica, la penso un po’ alla Homer Simpson quando constata che tutte le sue camicie sono diventate rosa causa lavaggio sbagliato e dice di non poterla indossare una camicia rosa al lavoro: “Non sono abbastanza popolare per essere diverso” dice a sua moglie Marge.
Quanti di noi al lavoro possono vestirsi alla Sandler senza venir giudicati negativamente?
Quanti di noi possono esprimere al 100% il proprio estro in una presentazione con un nuovo cliente, con un nuovo capo, senza godere del beneficio del dubbio sulle proprie capacità?
Quanti ad un colloquio di lavoro o in un meeting importante possono raccontarsi al 100% senza il rischio di essere fraintesi, non completamente capiti?
E non credo che sia solo per incapacità di chi sta dall’altra parte, conosco il lavoro che fanno head hunter e manager per andare al di là degli stereotipi, per praticare un buon ascolto che abbassi la voce del pregiudizio, certo c’è ancora tanto lavoro da fare ma tanto se ne sta già facendo in termini di divulgazione e studio.
La questione è che anche quando pensiamo di sapere cadiamo nelle trappole dei bias, certe cose succedono al di là della nostra consapevolezza, la nostra mente non è solo nel cervello ma in tutto il corpo (si vedano gli studi dell’embodied cognition) che reagisce nonostante le informazioni che possediamo, le regole che conosciamo, i valori in cui crediamo e così succede che il “diverso” in prima battuta è più nemico che risorsa, è più rivale che alleato, è più fatica che beneficio. Questo non deve essere un alibi per non lavorare sugli stereotipi, per non  impegnarsi in operazioni di decostruzione, o in attività di formazione, studio e divulgazione.
Tuttavia se non siamo pienamente risolti, tranquilli, sicuri del nostro valore (per dirla alla Sandler) o ancora non ci siamo guadagnati sufficiente popolarità e credibilità (per dirla alla Homer) possiamo fare un’operazione strategica senza viverla come un ripiego, con amarezza, vergogna o come un trucchetto, come mi pare siano state vissute le strategie raccontate nel talk di Valore D, ma al contrario come l’esercizio di una competenza del cui valore sono fortemente convinta.
Si tratta del passare dal paradigma dell’apparire a quello del mostrarsi adottando l’accorgimento della giusta misura e arrivare quindi a presentarsi “secondo misura”. In diverse altre occasioni ho parlato del “good looking”, diverso tempo fa in un articolo di giornale avevo trovato questo concetto, dell’economista Francesco Daveri scomparso qualche anno fa,  sul sapersi presentare, che diceva che se nella bellezza  non c’è merito il sapersi presentare è una competenza reale.
Decidere cosa raccontare di volta in volta, di contesto in contesto, di persona in persona è una competenza relazionale e sociale, ma non è solo questo è anche qualcosa che fa bene al nostro corpo e alla nostra mente.
Mi spiego meglio, poniamo che voglio essere me stessa sempre al 100%, e che posso farlo perché vivo in un mondo in cui non esiste il giudizio o meglio il pregiudizio negativo relativamente a certi aspetti, e poniamo che la mia indole  nell’abbigliamento mi porti a vestire abiti molto pratici, comodi, un po’ larghi, scarpe basse e ginniche, quello che succede è che creo nel mio corpo, per effetto dell’embodied cognition e dell’enclothed cognition, sensazioni di rilassatezza, calma, e se questo è il mio mood prevalente la mia zona di comfort mi può portare sino agli eccessi di inattività, indolenza, pigrizia, che si traduce anche in un pensiero più piatto. Diversi studi hanno dimostrato ad esempio che vestire in modo più formale stimola maggiormente il pensiero astratto rispetto all’abbigliamento più casual.
Dall’esperimento del camice bianco le ricerche sulla cognizione vestita si sono moltiplicate e hanno dato evidenza che gli abiti che indossiamo ci fanno fare cose diverse: le punte ci allertano, le curve ci rilassano, tessuti morbidi ci rendono più accoglienti, tessuti rigidi ci rendono più resistenti, colori caldi ci avvicinano, colori freddi ci allontanano.
Avere queste informazioni e usarle a mio avviso ci rende più competenti e ci può far stare meglio, se mi vesto in modo pratico e comodo personalmente sono nella mia zona di comfort ma ho constatato che giorno dopo giorno viene rinforzata la mia introversione, divento più chiusa e svogliata, quando sono triste e indosso qualcosa che per me è bello, che ha un colore con un livello di energia alto, con forme accoglienti ho sperimentato in prima persona un miglioramento dell’umore, se per un evento importante ho scelto un abito che ritengo starmi bene e che mi piace trovo che sia un alleato alla buona riuscita dell’iniziativa, se conduco un colloquio di selezione e voglio ottenere un buon risultato so che non devo indossare certi colori e certe forme (cronache di vita vissuta nel mondo hr con feedback ricevuti da candidati), questi non li reputo trucchi, sono il risultato di quello che ho imparato studiando i vestiti, sono una competenza acquisita al pari della proprietà di linguaggio, del pensiero laterale e del lavoro di gruppo.

Dunque per tornare alla domanda iniziale: quanto è possibile assecondare il proprio stile e uscire indenni dal confronto con gli standard sociali che ci vogliono belli, eleganti, con caratteristiche socialmente desiderabili?
Mi viene da dire che dipende da come stiamo a livello di habitus (assetto di personalità interna) e di diritti e privilegi acquisiti a livello di contesto.
Ritengo che sia molto fattibile uscire indenni dal confronto sociale se siamo sufficientemente attrezzati a livello di personalità. Secondo la teoria del completamento simbolico del sé se ci sentiamo incompleti, tenderemo a completarci con gli oggetti (semplificando molto: se mi sento vulnerabile mi corazzo con una giacca, se mi sento poco intelligente metto degli occhiali da studiosa, se mi sento piccola mi metto i tacchi), va da sé che se il nostro Sé è completo, il problema non sussiste, questo è quello che ci ha mostrato Adam Sandler.
Se il nostro habitus ha la stoffa dell’insicurezza, dell’autostima bassina, della sensibilità al giudizio altrui meglio andare per gradi, presentando di occasione in occasione una versione di sé tailor made, il guadagno sarà la credibilità per poter poi spendere la propria diversità e così si arriverà al punto di potersi permettere di indossare una camicia rosa tra mille bianche, questo è quello che ci ha mostrato la sfilata di Alessandro Michele. Questo risultato lo possiamo raggiungere anche ponendo attenzione a ciò che indossiamo.
Indipendentemente dal nostro habitus che potrà essere più o meno di buona qualità, se rientriamo in un target molto segnato da iniquità, pregiudizi e stereotipi, ci vogliono azioni di sistema che passano da strumenti e strategie più forti: norme, regole, obblighi, divieti, leggi sui quali purtroppo come singoli poco possiamo fare e quindi si ritorna al punto 1 e 2 per quello che possiamo fare nel nostro piccolo.
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Riccissima me

20/2/2025

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Sono nata con i capelli ricci. Si adattano alla mia personalità ed esprimono totalmente chi sono.
(Erin Wasson)

 
Fino ad ora su questo blog non avevo ancora scritto nulla sui capelli, eppure è un tema che mi ha sempre coinvolto moltissimo.
I miei capelli sono stati per lungo periodo fonte di insoddisfazione, da piccola mia mamma mi portava dalla sua parrucchiera che, ormai in pensione, in una recente occasione in cui l’ho incontrata mi ha ricordato di come fossi paziente ed educata nello stare sotto il suo phon a farmeli stirare.
Eh sì perché sono una riccia che per diverso tempo ha cercato di domare la chioma, con spazzole, piastre, e l’utilizzo di un casco casalingo (quando ero ragazzina si usava, era abbastanza diffuso nelle abitazioni), sotto il quale, quando mi asciugavo i capelli, trascorrevo un tempo abbastanza lungo e nel frattempo leggevo e studiavo.
Ecco ora che ci penso, i capelli per me sono da sempre collegati ai pensieri, allo studio, alle idee. Ancora oggi mentre li asciugo con un diffusore ne approfitto per leggere.
Il rapporto con i miei ricci è passato nel tempo da un totale rifiuto, ad una serena rassegnazione per arrivare oggi ad un inaspettato orgoglio, complice anche la cultura ed il movimento #embraceyourcurls (valorizza i tuoi ricci) che ha portato con sé molta divulgazione in merito.
 
I giudizi che in prevalenza un tempo affioravano alla mia mente riguardavano la stravaganza e il disordine.
Quando conducevo delle formazioni sui temi della comunicazione e del personal branding mi capitava spesso di citare esempi personali, uno di questi aveva a che fare con la distinzione tra assolutismi e relativizzazioni, che esemplificavo con un giudizio su di me per passare poi la palla ai partecipanti e l’opinione che esprimevo, nell’ottica della generalizzazione, era la seguente: ho sempre un’immagine disordinata che poi nell’ottica della relativizzazione diventava quando ho i capelli crespi la mia immagine è disordinata.
Succedeva che alcuni giudizi sulla mia immagine e andando anche oltre sulla mia personalità partivano proprio dai miei capelli, per effetto alone per il fatto di essere riccia mi percepivo: caotica, disordinata, meno professionale di colleghi che avevano una bella piega.
Il lato buono della medaglia era la percezione della creatività e dell’originalità.
 
È  stato di un certo sollievo, anche se magro, lo scoprire che non solo sola con questo vissuto, una ricerca del 2017 ha evidenziato una stretta correlazione tra il giudizio di avere capelli brutti (piega, taglio, etc.) e in disordine e il senso di autostima.
La ricerca è stata finanziata da Procter & Gamble in occasione del lancio di una nuova linea di prodotti  per capelli e realizzata dal Gender Communication Laboratory di Yale, diretto dalla Professoressa Marianne LaFrance.
Tra i risultati più sorprendenti è emerso che la sensazione di avere dei capelli in ordine e  di bell’aspetto era correlata al livello di competenza percepito: i soggetti che giudicavano i propri capelli scompigliati, in disordine o con un brutto styling percepivano le proprie capacità come significativamente inferiori rispetto ad altri, inoltre il solo fatto di pensarlo generava il giudizio di essere meno intelligenti.
Altra correlazione significativa rilevata è stata con il sentimento di insicurezza sociale, che si è tradotto per le donne in imbarazzo e vergogna e per gli uomini in nervosismo e asocialità.
E per concludere un'ulteriore correlazione rilevata è con l'autocritica, che si è manifestata con maggior severità e negatività nel giudizio delle proprie caratteristiche personali.
Quanto a differenze di genere, c’è da dire che l’effetto bad day hair è piuttosto democratico perche riguarda, a dispetto dei luoghi comuni, uomini e donne in egual misura
 
Come dicevo la consolazione è piuttosto magra, perché trovo davvero triste che la nostra testa subisca i condizionamenti della sua messa in piega, ma tanto è; magari conoscere come funzioniamo ci aiuta via, via a snodare come un buon pettine giudizi e pensieri ingarbugliati e arruffati.
 
 
Approfondimenti sulla ricerca di Yale: campione, metodologia, etc.  
Sono stati coinvolti 120 soggetti di età compresa tra i 17 ed i 30 anni (50% donne e altrettanti uomini).
Il campione era composto da più del 50% da popolazione occidentale, circa un 10% afroamericana, oltre un 20% asiatica.
I partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi, ad uno dei quali è stato chiesto di raccontare episodi nei quali giudicavano di avere capelli in disordine, un altro è stato indotto ad un pensiero negativo attraverso l’immaginazione di packaging danneggiati di prodotti scadenti, infine l’ultimo gruppo era di controllo e quindi non ha avuto alcuno stimolo.
L’intero campione è stato sottoposto a diversi test psicologici orientati a misurare l’autostima e il giudizio verso di sé, i risultati hanno sempre mostrato una maggiore correlazione del primo gruppo con un basso livello di autostima e un severo giudizio verso di sé.

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Vesti chi sei o cosa fai?

28/8/2024

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Qualche tempo fa ho letto un post sull'account istagram di una psicologa che stimo (Amy Cuddy) che raccontava di come usi gli abiti come reminder per smettere di separare il suo sé lavorativo dal suo sé del tempo libero. Nel suo post rifletteva su come siamo abituati a dividere l'io lavorativo da quello non lavorativo e andando controcorrente affermava che questa dicotomia non ci serve e allora per ricordarselo e per mostrarlo indossa i suoi capi preferiti nelle diverse sfere di vita. Nel post ha inserito diverse fotografie che la ritraggono con i suoi abiti preferiti  in momenti professionali e non: ad esempio indossa degli stivali texani ad una ted talk e allo stesso modo ad un concerto, un abito di paillettes ad una conferenza, ad una celebrazione in famiglia e ad un concerto, naturalmente il tutto con dei piccoli adattamenti il risultato è secondo me uno stile creativo e versatile.
Ho continuato a pensare a questa faccenda sulla scia della suggestione lanciata dalla lettura del post, in passato il mio sé lavorativo e quello privato erano distinti e distanti, al lavoro in giacca e nel tempo libero molto comoda, il comune denominatore era cercare di inserire un po' di originalità in entrambe le sfere, nel guardaroba professionale relegandola soprattutto agli accessori o al taglio dei capi, nel tempo libero esprimendola pienamente nelle forme e nei colori.
Ora, avendo cambiato quello che faccio, il mio guardaroba è unico, i capi li uso indistintamente in negozio, per un'uscita serale, per un evento.
Credo che quanto più indistinto sia il guardaroba rispetto agli usi tanto più sia indicativo di un fare conseguente all'essere e per questo riflesso di una certa autenticità: sono estroso, classico o rilassato e quindi il mio guardaroba segue queste mie caratteristiche che porto in giro, con me nel mio fare. 
Al contrario la compartimentazione del guardaroba (capi per il lavoro, capi per il tempo libero, etc.) mi sembra rappresenti più un essere al servizio del fare: quando lavoro sono professionale, quando non lavoro sono estroso, classico o rilassato, etc.

In un precedente post avevo scritto che il fare è il vestito dell'essere, quello che forse lì non avevo messo bene a fuoco è che occorre osservare non solo il risultato (i vestiti che indosso) ma anche il processo, vale a dire: da quale prospettiva ho deciso di indossare quello che indosso, da ciò che faccio o da chi sono?
Quando le scelte le facciamo dal nostro fare è più difficile mettere in pratica il principio della Cuddy, perché indosserò quello che il ruolo richiede, la scelta sarà condizionata dall'esterno e dal contesto, quando le scelte le facciamo dal nostro essere la prospettiva si ribalta o perché ragioneremo in modo più tranchant: sono quello che sono in ogni momento oppure perché realmente ci sarà un continuum molto fluido nel nostro essere e nel nostro fare - sono dunque faccio.

In ogni caso non credo che una condizione sia meglio di un'altra sono semplicemente diverse e utili a degli obiettivi: se il mio obiettivo è essere autentico il principio della Cuddy sarà più funzionale, se il mio obiettivo è tenere separate le due sfere i vestiti mi aiuteranno.
Inoltre se voglio sfruttare i poteri dell'abito posso sceglierli proiettando il mio sé nel futuro e chiedermi: chi voglio essere/diventare; cosa voglio fare e iniziare il cambiamento da lì.

In questa prospettiva i vestiti diventano un nudge al servizio del nostro sé tra presente e futuro.
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Profumo e personalità

29/7/2024

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Spruzzarsi un po' di profumo è il gesto che compiamo una volta deciso un outfit e completato il make-up, è il tocco finale alla propria immagine, è allo stesso tempo il primo messaggio che inviamo, attraverso la sua fragranza, con l’arrivo in un certo ambiente e l’ultimo che lasciamo con la sua scia come traccia quando ce ne andiamo.
Effettivamente la funzione dell’odore è proprio quella di comunicare facendo arrivare il messaggio a lunga distanza, prima ancora che arrivino la vista e l’udito e così nel mondo animale ci sono feromoni di diverso tipo: sessuali per dare segnali ai futuri partner, gregari per favorire e mantenere la coesione di un gruppo, di allarme che attivano segnali di pericolo, di spazio per delimitare i confini di un territorio, di pista per tracciare un percorso da seguire.
Nell’uomo la portata di questi messaggi è inferiore ma comunque molto presente, basti pensare alla capacità di una madre di riconoscere a poche ore dalla nascita l’odore del suo bambino tra tanti altri, fondamentale ai fini dell’accudimento.
Gli odori, così come i sapori, che percepiamo arrivano direttamente al cervello limbico, creando delle potenti tracce di memoria olfattiva e degli stati d’animo.
Ha straordinariamente descritto questo effetto Marcel Proust, con il ricordo delle madeleine e del tè sul suo umore. Nella sua opera Alla ricerca del tempo perduto descrive il momento in cui è inondato da una forte gioia dopo aver assaporato un pezzo di madeleine inzuppato nel tè e l'invano tentativo di recuperare il ricordo attraverso la visualizzazione aiutandosi con le forme, poi d'un tratto il ricordo appare. Quel sapore era quello che trovava la domenica a casa della zia Léonie quando le offriva proprio quel dolce con un infuso di tè o tiglio.
Nell’evocazione del ricordo l’odore e il sapore hanno battuto di gran lunga la forma.

Questo meccanismo spiega perché per questo senso la variabilità soggettiva sia molto più elevata rispetto agli altri sensi. Il fatto che ci sia un’associazione così stretta tra la percezione, di un odore (ma vale allo stesso modo per i sapori) e un’emozione fa sì che un profumo ci piaccia oppure no.
Questo non vuol dire che non ci siano minimi comuni denominatori per la collettività, per esempio la familiarità e la cultura giocano un ruolo importante per creare delle influenze, se ad esempio vivo in un paese famoso per la presenza di lavanda, riconoscerò  questo profumo come familiare e lo valuterò come più gradevole di altri, o al contrario se nel mio paese un certo profumo è utilizzato come medicinale lo troverò meno gradevole di chi lo stesso profumo nel suo paese lo trova impiegato nel settore dolciario (gli esempi sono tratti da uno studio della Dr.ssa Jelena Djordjevic e del suo gruppo di ricerca al Montreal Neurological Institute, letto qui ).
L’embodied cognition ha poi esemplificato come numerosi odori abbiamo un particolare effetto su di noi (ne avevo parlato qui), ad esempio la menta e la cannella stimolano la memoria e l’attenzione, riducono la percezione di difficoltà di un compito e aumentano la performance.
Il profumo dei prodotti da forno crea un ambiente positivo e collaborativo, il limone e gli agrumati in genere sollecitano e infondono un senso di pulizia (anche morale)

Da questa prima disamina abbiamo iniziato a comprendere che quello che spinge o ci allontana da una fragranza è in parte chimico, in parte culturale e in (gran) parte soggettivo.
Il passaggio successivo è quello di collegare i profumi alla personalità e per farlo adotterò gli stessi criteri utilizzati per la decodifica di forme e colori, andando per associazioni e analogie, avremo così che le:
  • caratteristiche di vitalità, grinta ed energia saranno affini a profumi legnosi forti e decisi che nel linguaggio delle stagioni interne significano estate,
  • caratteristiche di giocosità, creatività e ecletticità a profumi dolci e floreali (stagione interna primavera),
  • caratteristiche di stabilità, concretezza, semplicità a profumi leggeri dal sapore di pulito (stagione interna autunno),
  • caratteristiche di introversione, individualità, libertà a profumi dai toni speziati (stagione interna inverno).
Inoltre nell’espressione della personalità intervengono altri elementi come ad esempio:
  • la quantità di profumo che si indossa e la sua persistenza: le stagioni interne dell’estate e della primavera tenderanno ad abbondare e usare profumi persistenti perché sono stagioni che lasciano il segno, al contrario autunno e inverno saranno più parche, soprattutto l’autunno che potrà prediligere eau de toilette al profumo vero e proprio, perché l’inverno potrebbe usare il profumo come protezione, filtro e barriera verso l’esterno;
  • la variabilità, vale a dire se si è fedeli ad un’unica fragranza o se si è soliti cambiare o adattare il profumo all’outfit o all’umore: anche in questo caso autunno ed inverno tenderanno ad essere inclini all’utilizzo di una unica fragranza per lunghi periodi, al contrario di estate e primavera che potranno essere più flessibili e variabili;
  • la tipologia del profumo se di nicchia, di moda o commerciale: la stagione inverno tenderà ad utilizzare profumi di marche quasi sconosciute, l’estate profumi che rappresentano status symbol preferibilmente di brand di moda, l’autunno si orienterà su brand presenti anche in centri commerciali mentre la primavera sarà più eclettica attingendo dai diversi canali sull’onda dell’emotività del momento.

Con il profumo lo stile si arricchisce di ulteriori significati, includendo le note delle fragranze possiamo arricchire il racconto di chi siamo, e siglare la firma della nostra cifra stilistica.


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Perchè ci vestiamo come ci vestiamo?

20/7/2023

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Perché qualcuno si veste in modo super elegante, qualcuno in modo eccentrico, qualcun altro in modo super comodo e qualcun altro ancora sembra non avere alcuna affinità con i vestiti?
A questa domanda la risposta che sento più frequentemente suona più o meno così: "dipende dal fatto se una persona ha stile/gusto, ed è una cosa che si ha o non si ha".

Questo modo di vedere le cose a mio avviso contiene il giudizio che lo stile sia tout court sinonimo di eleganza e bello e che sia una dote o una competenza che o si possiede oppure non ci sia nulla da fare.
E se invece prendessimo il termine in modo neutro?
Prendo alcune righe dal dizionario, che così definisce lo stile: insieme dei mezzi espressivi che costituiscono l'impronta di una persona o un gruppo.
Guardandola in questo modo, ci rendiamo conto che uno stile lo abbiamo tutti, da chi si veste all'ultima moda a chi si dichiara totalmente analfabeta rispetto agli abiti.
Ciascuno di noi ogni giorno fa delle scelte su cosa indossare, il risultato contempla degli scarti e dei consensi, e prima ancora ci saranno state delle scelte riguardo a cosa acquistare e far entrare nel proprio guardaroba, anche in questo caso ci saranno stati capi scartati e capi scelti.
Il mio interesse è sempre stato di comprendere cosa fa sì che ciascuno di noi scelga proprio quello che sceglie e scarti altri elementi.


L'abito e l'habitus
L'habitus è un sistema di schemi di percezione, pensiero e di azione, che ciascuno matura nei diversi contesti di vita e che risultano prevedibili e durevoli. L'habitus rappresenta quindi il nostro stile di pensiero, relazionale e comportamentale che ci orienta (anche) in fatto di abbigliamento.
Ed ecco che se il mio habitus è fatto di:
  1. estroversione, velocità, competitività, desiderio di emergere, interesse per le cose belle e lussuose, il mio abito molto probabilmente sarà di pregio, formale o comunque elegante, con elementi status symbol.
  2. estroversione accompagnata da interesse per le relazioni, per il divertimento, la condivisione, la voglia di visibilità e di riconoscimento,è prevedibile che il mio abito sarà spontaneo, espressivo, creativo e originale.
  3. introversione, sensibilità, empatia, disinteresse per la mondanità e l'apparire, il mio abito è probabile che sarà comodo, casual, per nulla appariscente, al contrario discreto e sobrio.
  4. introversione, individualità, quasi avversione per la socialità, desiderio di stare al riparo dal frastuono dell'esterno molto probabilmente l'abito seguirà questo schema diventando poco interessante e utile se non per la sua funzionalità.
Queste categorie sono grossolane e imprecise, ma hanno la funzione di semplificare il concetto rendendolo più comprensibile attraverso alcuni esempi, in modo più diffuso la mia traduzione dell'habitus in abito l'ho realizzata in un sistema che ho chiamato Stagioni Interne.
Tornando quindi alla domanda iniziale "perché ci vestiamo come ci vestiamo", la risposta per me non può che essere: dipende dall'habitus che ciascuno di noi ha sviluppato a partire da delle predisposizioni e attraverso le sue esperienze di vita e sebbene l'habitus sia prevedibile e durevole non è immutabile!
 
Piacersi dentro e/o fuori
Qui vorrei esplorare la relazione tra abito e habitus in termini di soddisfazione, vale a dire quanto ci piacciamo dentro e/o fuori.
Nei tratti in cui parlo di insoddisfazione non mi riferisco a una lieve insoddisfazione, bensì ad un livello già discreto che mette la persona che la prova in difficoltà. Le casistiche che ho avuto modo di osservare sono più o meno queste:
  • a) piacersi dentro e fuori (ovvero essere soddisfatti di habitus e abito): in questo caso la persona si piace interiormente e si piace anche nell'abbigliamento, alla domanda "cosa vorresti di diverso nel tuo guardaroba" di solito la risposta è: "nulla mi piace quello che ho e che indosso", allo stesso modo c'è un riconoscimento delle proprie risorse e un buon livello di soddisfazione rispetto al proprio sé. Quanto al feedback esterno qui può capitare che sia positivo e dall'esterno venga riconosciuta la gradevolezza del look, in termini di eleganza, buon gusto, originalità, etc. Altre volte invece il feedback positivo dall'esterno non c'è, in questi casi la persona può rimanere indifferente ai commenti esterni e fedele alla sua soddisfazione, oppure essere spinta nella casistica seguente, che a breve vedremo. 
    In generale questa categoria è secondo me quella di chi, relativamente risolto, sa vedersi nella sua totalità, si apprezza, e si comunica in modo autentico e spontaneo. L'abito diventa una estensione, una manifestazione, un'espressione dell'habitus.
  • b) piacersi dentro ma non fuori (ovvero essere soddisfatti dell'habitus ma non dell'abito): qui per me rientrano in particolare due casistiche quella per la quale l'insoddisfazione verso l'abito è soggettiva e personale, e un'altra, quella a cui facevo riferimento nel punto precedente, nella quale la persona si piacerebbe ma viene indotta verso un cambiamento e in qualche modo la questione abito diventa "critica".
    Entrambe hanno in comune la consapevolezza delle proprie qualità positive dal punto di vista interiore, del proprio valore, poi in un caso capita che la persona senta che quel valore non riesce a trasmetterlo attraverso l'immagine che vede come disallineata e priva di appeal.
    Nell'altro caso invece la persona si piace o non ha un particolare interesse verso l'abbigliamento, perchè le cose importanti sono altre, o semplicemente perché è cresciuta in contesti che a loro volta non avevano cultura in merito, in questo caso la questione abbigliamento diventa "problematica" nella misura in cui si trova in ambienti che richiedono un certo livello di statement o dress code o c'è una crescita o un cambiamento che richiede anche un'immagine più "curata" o c'è qualcuno di molto vicino (un partner, un familiare, etc.) che esprime opinioni spesso non richieste o fa esplicitamente richieste di cambiamento dell'immagine perchè non rientra nel suo gusto personale.
    Questa categoria è dunque quella di chi da un lato chiede all'abito un upgrade dell'immagine per fare un miglior servizio alla propria persona, dall'altro chiede di bilanciare qualcosa che manca (es. maggiore professionalità, standing, etc). In termini psico si parla di completamento simbolico del sé.
  • c) non piacersi né dentro né fuori (ovvero essere insoddisfatti dell'habitus e dell'abito): qui c'è un effetto alone che va dall'interno verso l'esterno e viceversa per cui la persona si sente incapace, priva di qualità e naturalmente con un'immagine inadeguata.
    Qui la condizione a mio avviso merita ascolto, e rimando la trattazione al termine dell'articolo.
  • d) piacersi fuori ma non dentro (ovvero soddisfazione per l'abito ma non per l'habitus): su questo punto mi sono confrontata con un piccolo campione, una ventina di persone (18 donne e 2 uomini). Ho coinvolto il campione perché personalmente non ho mai osservato la situazione di chi sia realmente soddisfatto di come si veste, ma non della propria dimensione interiore. Quello che più volte mi è capitato di osservare è di vedere qualcuno che a fronte di una bassa considerazione di sé, se vestito e truccato da professionisti si vedesse bene e risultasse soddisfatto nell'immediato dell'immagine restituita dallo specchio, ma dovendo poi replicare gli stessi look in momenti differenti l'effetto non era più lo stesso, come se sentisse un'aura di inautenticità.
    Oppure mi è capitato di osservare situazioni nelle quali a fronte  di un feedback positivo largamente condiviso dall'esterno sull'abito, questo non fosse sentito dalla persona che vittima di insoddisfazione verso l'habitus non faceva suo il piacere della propria immagine.
    O ancora una iper attenzione al look il cui risultato era buono per la persona ma che sosteneva un costo molto alto, in termini di controllo, impegno e tempo e che per questo non mi sembra possa essere soddisfacente nel processo.
    Tornando al campione intervistato, a fronte della domanda: "conosci qualcuno che si piace esteriormente, soprattutto per come si veste, ma non si piace per le sue caratteristiche interne, cioè si sente adeguato nel look, ma ha una bassa considerazione di sé"  in generale il campione ha dichiarato la difficoltà di rispondere perché se da un lato è più facile avere un'opinione sulla dimensione interiore, risulta più difficile comprendere se realmente una persona si piaccia nell'aspetto estetico,  in ogni caso 16 intervistati  hanno dichiarato di non conoscere nessuno rientrante nella casistica, 4 hanno dichiarato di avere in mente alcune persone che vi rientrano, argomentando un po' la risposta in alcuni casi  è riscontrato il piacere di vestirsi bene, o il percepire capacità, competenze nell'ambito (es. viene facile creare abbinamenti) o comunque la capacità nell'ambito non è in discussione, qualcun altro ha rilevato che l'aspetto è curato in modo quasi maniacale o sembrerebbe quasi una facciata per compensare delle carenze.
    Queste ultime considerazioni si accordano con il concetto di completamento simbolico del sé di cui accennavo sopra (quando ci sentiamo carenti/incompleti usiamo gli oggetti per completarci) così come quello delle autostime specifiche, vale a dire posso sentirmi adeguata in un ambito, in questo caso quello corporeo, e magari non in quello sociale.
    In questo caso l'abito pur non incidendo in modo sostanziale nella visione della dimensione interna, può essere usato come elemento dal quale partire per prendere consapevolezza sulle proprie risorse con un movimento dall'esterno verso l'interno.


Aumentare il livello di soddisfazione
Cosa possiamo fare per aumentare il nostro livello di soddisfazione verso le due dimensioni? Perchè direi che possiamo essere concordi nel dire che piacersi dentro e fuori sia la meta verso cui tendere!
Possiamo lavorare dal di dentro con percorsi che vanno dalla consapevolezza, alla crescita personale, sino alla terapia, e abbiamo visto che quando ci piacciamo dentro tendiamo a piacerci anche fuori, la soddisfazione per il proprio habitus è un requisito necessario ma non sempre sufficiente per stare bene nei propri panni (vedi casistica b) e questo perché non siamo monadi, isolate dal resto del mondo siamo in relazione, in confronto, e soggetti a influenze sociali, quanto più siamo in contesti che ci rispecchiano in termini di valori, interessi, bisogni, etc. ecco che davvero habitus e abito vanno a braccetto e diventano l'indicatore che stiamo proprio vestendo i nostri panni e il dentro e il fuori sono coerenti, autentici e armonici.
Oppure possiamo lavorare dal di fuori, individuando i vestiti nei quali ci sentiamo bene, spingendoci un po' più in là delle nostre consolidate abitudini, osando, fidandoci del feedback che ci arriva dall'esterno e vedere l'effetto che fa un cambio d'abito sull'habitus.
O ancora possiamo usare l'abito come indicatore per misurare il nostro livello di benessere, soprattutto quando un cambio d'abito ci viene richiesto dall'esterno perché da un lato può essere un' occasione di crescita, miglioramento e sviluppo di potenzialità che ancora non avevamo intuito, dall'altro può essere qualcosa che ci allontana da noi, può essere il campanello che ci invita a chiederci se è realmente quello che ci corrisponde e in linea con chi siamo.

Domande che tornano utili

Infine concludo questo articolo con alcune domande che possono tornare utili per lavorare su di sé attraverso l'abito
  • Sono soddisfatta della mia immagine?
  • C'è qualcosa che vorrei di diverso?
  • Ci sono dei feedback positivi che ricevo e che possono ispirare un cambiamento?
  • Cosa mi piacerebbe indossare che non indosso?
  • Cosa potrei iniziare a sperimentare,da questo momento, di nuovo per andare verso il cambiamento che desidero?
A te le risposte!
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Quando a sfilare è la persona(lità)!

27/6/2023

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Dress Your Story è un originale progetto che Amazon realizzerà in collaborazione con l’Istituto Europeo di Design di Roma e la PMI toscana Dalle Piane Cashmere.
Gli studenti dello IED di Roma realizzeranno i loro modelli a partire dagli interessi, dalle passioni, dai vissuti dei dipendenti amazon che poi li indosseranno: 25 bozzetti moda per 25 dipendenti Amazon.

In un articolo del blog di un paio di anni fa intitolato "indossa-ti" riflettevo sul ruolo degli stilisti che secondo me sono un po’ maghi perché creano di stagione in stagione la versione di chi saremo e mi chiedevo se di questo potere, di contribuire cioè a presentificare le condizioni che esperiremo, ne fossero consapevoli. Nella mia riflessione arrivavo alla conclusione che nel loro lavoro il focus non avrebbe tanto dovuto essere preoccuparsi di come sarebbero apparsi i loro vestiti ma soprattutto di come ci  sarebbe stato dentro chi li avrebbe indossati.

Ecco questo progetto a mio parere crea proprio quel contesto per far sì che gli abiti, corrispondendo ai proprietari, consentano loro di indossarsi guadagnando in stile & autostima.



Aggiornamento 13/7/2023
Presentati i 25 bozzetti di Dress your story
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Il fare come vestito dell'essere

25/5/2023

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In questi giorni ho rivisto in negozio una persona che non vedevo da tempo, passata di qui per un saluto.
Notando le differenze rispetto a qualche tempo fa: un bancone, una macchina da cucire ed una tagliacuci e dopo le consuete frasi di circostanza sul come stai, cosa fai, mi ha chiesto: “ma tu non eri una psicologa?” Sorridendo le ho risposto che facevo la psicologa e anche altro.

Quello scambio di battute mi è rimasto impigliato nei pensieri.
Pensavo all’essere e al fare, a questo dilemma. Faccio, dunque sono? Sono, dunque faccio? Sono a  prescindere? Si tratta di due entità, che come due insiemi si intersecano, oppure una contiene l’altra?

Nel modello del coaching ontologico trasformazionale  c’è una distinzione tra essere e fare. Il concetto è che il nostro essere è più del nostro fare, farli coincidere vuole dire dichiarare che se sono quello faccio, non posso essere altro, in questo modo blocchiamo la possibilità di un cambiamento, distinguere quello che siamo da quello che facciamo significa vedere quello che possiamo essere, quello che possiamo diventare e aprire così uno spazio per il cambiamento.
Sembra tutto molto chiaro.... in teoria....il mio primo pensiero è stato che effettivamente non posso più dirmi una psicologa per il fatto di non fare le cose che facevo prima, e poi subito a dirmi “eh ma così sto facendo quello che facevo notare ai miei coachee, ovvero scambiare il mio essere con il mio fare”.
 Lo vedo...tuttavia penso che il mio fare oggi sia davvero molto diverso da quello di un tempo: non sto più in aula 8 ore, non faccio più sessioni di coaching, non compilo più report, e proprio come c’è scritto nella mia bio: ho sostituito file con fili, monitor con specchi, pc con macchina da cucire, d'altro canto sono iscritta ad un albo professionale, quello degli psicologi, studio la psicologia dell'abbigliamento, conduco consulenze nelle quali si analizza lo stile comportamentale per vederne i risvolti stilistici.
Quindi chi sono oggi e cosa faccio?
Il nostro cervello funziona per categorie, definizioni, etichette e per associazioni spesso stereotipate, e in quanto tali imprecise ed errate, in questo scenario lo psicologo è quello della stanza d'analisi.
Sempre nella mia bio, scrivo che sono “un’inquieta d.o.c." che per me è un buon contenitore dei miei fare passati, presenti e probabilmente futuri, inoltre ci stanno dentro altre cose.
L’inquietudine è una caratteristica che mi ha portato a esplorare, studiare, sperimentare in diversi campi, dalla psicologia, all’immagine, al cucito, a concepire la manifattura dei capi in un certo modo, a dar valore al legame tra dentro e fuori, allo scrivere questo blog e così sono nati, dai forma e colore al tuo stile, il lessico dell’abbigliamento e la sua linea.

Ecco che quella definizione per me tiene insieme chi sono con tutti i fare che ne conseguono, con la specifica che in tempi diversi ci sono dei “fare prevalenti,” che da un lato rinforzano certe parti di noi, dall'altro ci ingannano facendoci pensare che siamo solo quello, invece le azioni si sommano tra di loro, si sommano alle aspirazioni, alle ispirazioni, ai bisogni, agli interessi e diventano me, quella che sono.
Parafrasando Kurt Lewin, il mio essere è più della somma del mio fare.

Con questa faccenda del “fare prevalente” mi è più facile comprendere che l’essere e il fare si possano scambiare e confondere è un po’ come dire che il fare è il vestito che noi osserviamo allo specchio e che gli altri guardano. A volte perdiamo l’abitudine di vedere cosa c’è sotto e creiamo un tutt’uno, altre volte abbiamo ben presente cosa c’è sotto e a seconda dei contesti e dei momenti lo adorniamo di conseguenza.

Tornando alla domanda iniziale: essere e fare sono distinti, la relazione è integrata: sono dunque faccio e così divento altro che mi porterà altro fare che a sua volta insieme ad altre dimensioni agirà sul mio essere.
Prestiamo attenzione a quando facciamo coincidere tutto il nostro essere con un unico fare e alleniamoci a vederne le diverse sfaccettature, a guadagnarne saranno l’abito e l’habitus.


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Ma come ti vedi?

28/2/2023

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Ti chiederai cosa c'entra Kafka con il titolo di questo articolo, che ricorda il format televisivo di Carla Gozzi ed Enzo Miccio, nel quale i conduttori davano consigli di stile per valorizzare i concorrenti.
Ebbene, trovo che nei suoi Diari Kafka (alcuni stralci in fondo all'articolo) abbia raccontato benissimo le inquietudini che si possono provare di fronte alla propria immagine. Quelle inquietudini che in misura diversa possono essere le nostre e che  raccontate dall'esterno, come riflesse da uno specchio, possono esserci d'aiuto per modulare effetti e azioni su di noi.

Ed ecco cosa arriva dal racconto che Kafka fa di sé:
- percezione di essere mal vestito (mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, che ero vestito malissimo), 
- il senso di esclusività e soggettività negativa (ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto), 
- l'impossibilità e la non volontà di cambiare (non chiedevo abiti nuovi.... evitare di presentare... la bruttezza dei nuovi)

E ancora ci mostra il collegamento tra abbigliamento e postura (assecondavo gli abiti brutti anche con il mio comportamento, camminavo con la schiena curva, le spalle sbilenche....) e il disagio davanti allo specchio percependosi brutto (avevo paura degli specchi, perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile).

Infine il collegamento che propone tra dentro e fuori (se avrò un avvenire tutto si sistemerà automaticamente) facendo intendere che il successo dato dalle sue qualità personali, avrebbe messo a posto, compensando, spostando il focus, o chissà come, la questione immagine.

Trovo dolcemente triste l'uso che fa del futuro: non crede che le cose andranno così, tuttavia pensare all'opzione di un avvenire gli rende più affrontabile la quotidianità del presente....

Noi sappiamo bene la levatura del personaggio e di quello che ci ha consegnato eppure lui non la vedeva, e se guardiamo le sue foto (una a fondo pagina) certo non useremo le sue parole per descriverlo, eppure... 
Di qui la domanda che propongo nel titolo "Ma come ti vedi?" Tutto il resto è una conseguenza. 
Trovo sempre affascinante l'analisi delle cause, ma qui, utilizzando gli spunti del racconto, mi voglio soffermare sugli effetti.

Quando diventiamo severi giudici di noi stessi etichettandoci negativamente il compito che deleghiamo all'abbigliamento è quello di coprirci per nasconderci, disinvestiamo sulla nostra immagine, l'apparire divenuta qualcosa di frivolo, superficiale, mentre la nostra interiorità qualcosa di salvifico. Così dentro e fuori, assumono pesi differenti, l'immagine va in secondo piano, oppure le due dimensioni diventano antagoniste anziché alleate.

Pensando al modello delle stagioni interne, questo modo di pensare è tipico della stagione Inverno che tende ad usare l'abbigliamento come protezione, per ingentilire un po' la sua posizione dovrebbe mettersi le lenti della stagione Primavera che vede l'abbigliamento come libera espressione, gioco e divertimento.
Allora per l'effetto del potere dell'abito di rinforzare, quando diventiamo severi giudici potremmo partire dall'attingere dal guardaroba primavera e dal suo stile, muovendoci da dentro a fuori e viceversa per iniziare un cambiamento nel modo di vederci.



Dai Diari di Kafka 

Mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, che ero vestito malissimo e notavo se altri erano vestiti bene, salvo che il mio pensiero non riuscì per parecchi anni a trovare la cagione del mio miserevole aspetto in quegli abiti. Siccome già allora ero avviato, più con la fantasia che in realtà, ad avere poca stima di me, ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto dapprima rigido come una tavola, poi cascante a pieghe. Non chiedevo abiti nuovi perché, se proprio dovevo essere brutto, volevo almeno star comodo e, oltre a ciò, evitare di presentare al mondo, che aveva fatto l'abitudine agli abiti vecchi, la bruttezza dei nuovi… (31 dicembre, Diari 1911)

....
Perciò assecondavo gli abiti brutti anche col mio portamento, camminavo con la schiena curva, con le spalle sbilenche, braccia e mani impacciate: avevo paura degli specchi perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile che d'altronde, non poteva essere rispecchiata conforme a verità. Poiché, se proprio avessi avuto quell'aspetto, avrei dovuto suscitare anche più grande scalpore; e durante le passeggiate domenicali accettavo da mia madre leggeri spintoni nella schiena e troppo astratti ammonimenti e profezie che non riuscivo a mettere in rapporto con le mie preoccupazioni di allora… (2 gennaio, Diari 1912)
...
Volendo, potevo bensì camminare ritto, ma mi stancavo nè riuscivo a figurarmi perchè il portamento curvo dovesse danneggiarmi in avvenire. Se avrò un avvenire, tutto, immaginavo,  andrà a posto da sé. Un siffatto principio non era scelto perché contenesse la fiducia in un futuro della cui esistenza non ero persuaso, ma aveva piuttosto lo scopo di facilitarmi la vita: di camminare, di vestirmi, di lavarmi, di leggere, soprattutto di chiudermi in casa, la qual cosa mi procurava la minor fatica e richiedeva il minor coraggio … (2 gennaio, Diari 1912)
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Franz Kafka
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