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Altrove

31/8/2022

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/al·tró·ve/
In altro luogo: essere, trovarsi, abitare.
E ancora: luogo che simboleggia l'assenza dell'empirico, del quotidiano, del banale e che richiama un desiderio o una speranza di fuga.

Questi i principali significati presi dal Dizionario per questo avverbio.

Agosto è stato questo per me, un essere, un abitare in altro posto dal mio quotidiano, e questo ha portato necessariamente come effetto il misurarsi con la diversità: attività diverse, tempi diversi, luoghi diversi, persone diverse e abiti diversi e questo senza andare dall'altra parte del mondo, ma solo in un'altra regione.

Il tempo scandito dagli orari del negozio ha lasciato il posto ad un tempo libero non programmato, il solito panorama cittadino ha lasciato posto al verde e al mare e così anche gli abiti si sono accorciati e alleggeriti.

Quello che ogni volta mi colpisce, quando viaggio, è il fattore "contesto-dipendente", vale a dire: ciò che è "normale" e quindi meglio accettato ed opportuno in un certo contesto, in un altro non lo è allo stesso modo. Qui mi soffermo sull'abbigliamento ma direi che vale un po' per tutto.

Il vestirsi di più o di meno e in differenti modi, risulta "normale" e "appropriato" in certi perimetri e non in altri.

In spiaggia, ad esempio, è "normale" stare in costume, ed è "strano" rimanere vestiti, ma via, via che lasciamo quel perimetro le regole si invertono, sulla passeggiata ci sembra ancora ok stare in costume ma meglio aggiungerci un pezzo e, ancora, se ci spostiamo un po' ci fa strano se non siamo completamente vestiti, e così il comune senso del pudore si allarga e si restringe, dalla battigia al centro cittadino.

E questo mi ha fatto pensare alle conseguenze del contesto sul rapporto con il proprio corpo e in generale sull'apertura mentale.
Prendiamo ad esempio il vivere in un ambiente caldo che, in generale, porta a svestirsi di più, avendo così il corpo più alla nostra vista. E dato che questo comportamento, in quel luogo, lo adottano quasi tutti, quella diventa la "norma", lo "standard" che potrà essere per ciascuno rimodulato rispetto al proprio sé.

In ogni caso questa condizione secondo me ci permette di familiarizzare e normalizzare il rapporto con la nostra immagine, limitando il giudizio molto di più che in un contesto nel quale il corpo rimane più coperto.
Su di me ho osservato che dove vivo, in una città, quando fa caldo indosso quasi sempre pantaloni lunghi, gonne e abiti lunghi, tutto leggero ma lungo, al mare il mio abbigliamento si accorcia, e questo perchè la maggior parte delle persone fa lo stesso, ma quando ritorno in città, ritorno al mio standard. Questo naturalmente dipende da quanto ciascuno di noi è sensibile all'esterno, ed io lo sono.
In ogni caso, dopo queste riflessioni mi chiedo come poter agire su quel perimetro di cui parlavo prima, quando da geografico diventa mentale fino a creare dei veri e propri tabù facendoci perdere in accettazione e autostima.

Credo che come sempre il punto di partenza sia la consapevolezza, il fatto di rendersi conto di quanto il contesto, nel  bene e nel male ci condizioni, in questo caso, nel rapporto con l'abbigliamento e con il corpo, in modo da agire e non essere agiti per poi affidarsi ai concetti della scienza che ci dicono che possiamo sentirci diversamente vestendoci diversamente, e ancora concedendoci maggiore indulgenza dalle rappresentazioni che ci sminuiscono.
E allora "altrove" può diventare il mantra per ricordarsi che c'è la possibilità di uno spazio, questa volta mentale, che simboleggia l'assenza del quotidiano, dell'abituale e che richiama un desiderio, così da dirigersi e abitare altro con rinnovati pensieri e guardaroba.





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Filogenesi dei vestiti

21/5/2022

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Flugel nel suo libro dedicato alla psicologia dell’abbigliamento riporta un interessante parallelismo tra evoluzione della specie ed evoluzione dell’abbigliamento.
Il nostro guardaroba comprende diverse tipologie di indumenti: bluse, calze, pantaloni, giacche, gonne che possono essere paragonate alle diverse specie viventi.  George Darwin, figlio di Charles Darwin, ha tratteggiato un confronto tra l’evoluzione delle forme di vita e l’evoluzione degli abiti.
La biologia ci insegna che una specie può svilupparsi per gradi, a volte perdendo quelle caratteristiche che non hanno più utilità, altre mantenendole in forma ridotta.
Lo stesso possiamo osservare  nell’abbigliamento, ad esempio in alcune giacche a coda da uomo sulla schiena sono apposti due bottoni, oggi ornamentali, un tempo utilizzati per fermare verso l’alto le code in modo che non intralciassero andando a cavallo.
Così come i risvolti delle maniche e dei pantaloni oggi sono decorativi ma un tempo  le maniche dei soprabiti e delle giacche venivano spesso risvoltate per mettere in mostra i dettagli ricercati del capo sottostante.
I risvolti dei pantaloni  trovavano ragione di esistere per proteggerne il fondo, si trattava di una manovra temporanea e i pantaloni venivano tirati giù non appena si abbandonava la strada fangosa per entrare in casa.
A determinare le sorti del’evoluzionismo degli abiti vi è la moda, in alcuni periodi accelererà il suo ritmo, un esempio è stato dopo la Rivoluzione Francese con la comparsa della borghesia, periodo nel quale intere specie scomparvero, altre il ritmo del cambiamento sarà più lento non essendoci ragioni storiche o culturali alla base.
Ai giorni nostri il  fast fashion e allo stesso modo la sostenibilità  sta portando ad una semplificazione nella manifattura degli abiti che via, via stanno perdendo dettagli che richiedono spesso un prezzo troppo elevato nella lavorazione e così, capo dopo capo assistiamo a piccole estinzioni e si spera a nuove apparizioni.
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I perchè di una psicologia dell'abbigliamento

17/9/2021

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Ugo Volli in “Semiotica della moda, semiotica dell'abbigliamento?” scrive: "la moda non si identifica con l'abbigliamento... la moda è la modificazione del gusto... l'effetto comunicativo riguarda l'abbigliamento, il sistema di oggetti che avvolge e accompagna il corpo, e non la moda.... lo si può vedere in maniera chiara e semplice notando come la significazione di un capo è tanto più chiara e precisa quanto meno è oggetto di fenomeni di moda".
Da questa premessa segue l’opinione che abbigliarsi sia  una costante antropologica (ne ho parlato anche qui) che risponde ad un bisogno universale dell'essere umano, la moda non è universale non è un fenomeno presente in ogni luogo e ogni tempo, è piuttosto il risultato di condizioni socioeconomiche e culturali,  è circoscritto dapprima ad alcune categorie di persone, contesti,  e poi si estende diventando appunto moda.
Ed è proprio sull’universalità dell’abbigliamento che trova il gancio il fascino per me di questo tema, il fatto che tutti ci vestiamo, che il vestito può esprimerci o nasconderci, che qualcuno lo viva con indifferenza, qualcuno con entusiasmo e qualcuno con insofferenza.
Quanto ai linguaggi dell’abbigliamento e della moda il fattore mutevolezza crea differenze sostanziali: molto codificato il primo e molto poco il secondo.
Nell’abbigliamento i segni sono più forti poiché, all’interno di un contesto di riferimento,  durano più a lungo  e il significato è maggiormente diffuso  a livello collettivo.
Per fare un esempio se qui nel nostro  Paese chiedo cosa sia più formale tra una giacca e una polo è  probabile che otterrò la medesima risposta: la giacca.
Nella  moda i segni sono ipocodificati,  non hanno un significato fisso e stabile ma allusivo e svincolato da norme stabili, la giacca per uno stilista in una collezione avrà un significato magari super formale ed elegante e per un altro diventa un elemento di rottura.

Per questi motivi (costanza antropologica e linguaggio con segni più duraturi) sento più affine l’abbigliamento e la sua psicologia che per me riguarda il rapporto tra soggetto e abito,  tra identità e le scelte che ciascuno fa in fatto di abbigliamento.
Gli strumenti di cui mi sono dotata per lavorare in questa cornice sono:
  • il  lessico dell’abbigliamento, un glossario che contiene la descrizione di capi di abbigliamento e accessori, nei significati che si sono susseguiti nel tempo, selezionando i più durevoli, al fine di poterli  usare consapevolmente  come strumento di espressione del proprio essere dandosi la possibilità di comprendere quando  si attivano bias cognitivi, penso ad esempio a tutto ciò che riguarda le prime impressioni.
  • le Stagioni Interne , 4 stili comportamentali vestiti di forme e colori che li rappresentano, l’output sono 4 guardaroba il fine è di usarli per esplorare il proprio stile in base al proprio essere e a ciò che si vuole ottenere.
 
Per concludere, qual è il posto della psicologia della moda in questo scenario? È il contenitore che va oltre la relazione individuo/abito/espressione di sé comprendendo relazioni tra gruppi, culture, tendenze.
L’abbigliamento, rispetto alla moda, è quindi per me un di cui più approcciabile e personale, per sperimentare quotidianamente azioni di gioco e definizione di sé attraverso la propria immagine.
Se ti interessa sperimentare questo approccio qui trovi il servizio.
Se sei un professionista che vuole usare l’abbigliamento  come strumento di sviluppo qui trovi la formazione al metodo.
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Abbigliamento, lavoro da casa e pandemia un anno dopo

15/4/2021

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In queste settimane in cui il negozio è stato chiuso mi sono dedicata a tempo pieno, come non facevo da un po’, al lavoro di consulente risorse umane. Quando vesto i panni della consulente mi occupo di selezione, formazione e valutazione del personale, in questo periodo ho tenuto interviste di ruolo e assessment e questo mi ha dato modo di riflettere molto sul tema abbigliamento e lavoro da casa, abbigliamento e pandemia.
Sono consapevole che la pandemia ha effetti ben più gravi da analizzare rispetto alle ricadute sull’abbigliamento, tuttavia ritengo che il risultato complessivo del nostro benessere abbia tanto a che fare con le singole azioni che quotidianamente riteniamo trascurabili (come ad esempio scegliere cosa indossare) e che invece sommate tutte insieme hanno  un peso importante.

Nelle mie riflessioni come sempre parto dalle mie sensazioni e dalla mia esperienza: sono state settimane in cui sono uscita molto poco e ho passato tanto tempo al computer, era già successo durante il primo lockdown  ma la situazione era molto diversa, in quel frangente lo scenario era nuovo per tutti e c’era maggiore omogeneità.
A distanza di un anno ho riscontrato invece situazioni differenti, c’è chi alterna lavoro da casa a lavoro in presenza, c’è chi lavora da casa dall’inizio della pandemia, c’è chi tra alti e bassi non ha mai smesso di lavorare in presenza, in più c’è il vissuto di oltre un anno sulle spalle.
Mi sono allora chiesta come è cambiato il rapporto con la nostra immagine e con il nostro abbigliamento, quale impatto  ha tutto questo con il nostro modo di lavorare e quale sul settore dell’abbigliamento in particolare del pronto moda.

Partendo da me, quello che ho osservato
Avendo avuto il negozio aperto da maggio dello scorso anno, tolta una parentesi a novembre per il secondo lockdown, ho sempre avuto una routine in cui mi preparavo per uscire e per avere la possibilità di incontrare e interagire “dal vivo” con un una clientela.
Il fatto di interromperla, avendo collegamenti via web, ha ridimensionato l’importanza della scelta di cosa indossare o meglio la scelta circa la varietà e la diversificazione.
Era come se, una volta individuati alcuni elementi “adatti” (quella maglia, quella camicia, quel pantalone) non servisse altro.
La faccenda a questo giro si è un po’complicata perché come dicevo essendoci situazioni molto diverse potevo trovarmi ad interagire con persone che lavoravano da casa, oppure erano in ufficio perché era il giorno in cui a rotazione gli spettava, oppure erano situazioni più “formali” che richiedevano la presenza di più interlocutori ed un setting particolare. Altre volte ancora il collegamento avveniva con la richiesta di tenere la webcam disattivata per svariati motivi.
Succedeva come è presumibile che sia  che quando le persone si connettevano da casa  l’abbigliamento era molto  più casual, dall’ufficio  più formale e la formalità aumentava ancora di più se eravamo in momenti istituzionali.
Nella maggior parte dei casi non sapevo “dove” avrei incontrato il mio cliente,  non  sapevo cioè nel momento in cui fissavo l’incontro se quel giorno si sarebbe collegato da casa o dall’ufficio e questo mi ha messo in una  interessante posizione: gli abiti che avevo selezionato potevano non essere del tutto adeguati, perché io ero in casa e casa per il mio cervello vuol dire casual ma il mio interlocutore poteva non esserlo…
Ho così iniziato a vedere lo spazio in cui lavoravo non più come casa ma come ufficio e questo ha generato un atteggiamento diverso anche verso l’abbigliamento,  l’effetto è stato bypassare la capsule che avevo creato e tornare a selezionare dall’intero guardaroba e ho notato che questo a sua volta mi ha invogliato a uscire di più da quel confine e ha prendermi delle pause dalla casa.
All’inizio l’avere più o meno gli stessi capi mi portava a usare gli stessi anche quando uscivo  per commissioni e ancora più in generale a ridurre il numero di uscite facendo più attività casalinghe.
Il fatto cioè di indossare abiti da casa mi faceva fare più cose di casa, mentre avere un abbigliamento più formale mi ha portato a inserire nella mia giornata attività fuori casa.

Allargando il campo, le mie riflessioni
I confini sono importanti per creare i ruoli e i ruoli sono importanti per diversificare, per me individuare uno spazio della casa (specifico che spazio non vuol dire “stanza”) come ufficio mi ha permesso di vedere meglio il ruolo e l’abbigliamento è stato una conseguenza, si è arricchito in quantità e qualità.
Il troppo stroppia ma il poco restringe, penso alla capsule che avevo creato, era molto pratica al fine della scelta e della gestione (lavo/stiro) ma aveva generato in me un senso di pigrizia mentale che stava diventando anche fisica, la conclusione che ho tratto è che restringere il guardaroba (pochi capi, simili tra loro quanto a comfort) può restringe il campo di azioni ed esperienze, in soldoni: sto più a casa e faccio più cose di casa con il rischio alla lunga di provare frustrazione. Questo mi ha fatto ripensare al concetto di minimal e di “divisa” e mi sono chiesta se alla lunga questa potesse diventare fattore di riduzione anche nel pensiero. Io sono una fan del minimal perché ritengo che permetta di generare coerenza e un senso di sicurezza, d’altro canto ora mi chiedo cosa implichi in termini di chiusura, individualismo e rigidità … mi propongo di ritornarci su….
La cura di sé ha bisogno dello sguardo dell’altro, quando mi preparo per andare in negozio dove gli incontri sono “dal vivo” la cura che metto nel preparami è diversa, più precisa e attenta, idem quando ho un incontro anche virtuale ma che reputo “importante”, quando invece si tratta di un incontro di routine (incontri con chi ho familiarità), o lo sguardo dell’altro non c’è (webcam spenta) o non lo percepisco (andare a fare la spesa, dove gli sguardi sono di sfuggita e di estranei) la mia cura diminuisce. Tutto questo mi fa pensare che ci sono sguardi e sguardi nel generare i nostri comportamenti e che forse il nostro sguardo non è sempre sufficiente a motivarci alla cura o almeno il mio non lo è stato.
Sono sempre stata una sostenitrice di “l’importante è piacersi”, “quello che scegliamo nel nostro abbigliamento dipende solo da noi”, “piacere agli altri è secondario”, ora mi sorprendo a pensare che l’altro conta e questo non è un male semmai una spinta gentile …. mettendoci in mostra ci vediamo, nel senso che “compariamo” anche a noi stessi e forse non mostrandoci rischiamo via, via di scomparire.
Le nostre abitudini generano i nostri standard e questi condizionano il nostro comportamento: se mi abituo ad indossare la tuta a casa e sto a casa tanto tempo questo diventerà il mio standard per l’abbigliamento anche oltre le mura domestiche con quali effetti? Su questo punto ho voluto confrontarmi con altri punti di vista che riporto di seguito.

Lo “stile casalingo” quali effetti?
Mi sono confrontata con alcuni colleghi e amici per esplorare il percepito e comprendere quali effetti sta producendo, sulla cura di sé, lo stare in casa con un abbigliamento comodo, per un tempo prolungato.
Ho allora fatto un piccolissimo sondaggio, chiedendo ad una ventina di amici e colleghi (17 donne e 3 uomini) come fosse il loro livello di cura nel prepararsi per uscire  a seguito di un periodo prolungato di lavoro/permanenza in casa.
Il quesito era: quando esci, dopo periodo prolungato a casa, ti vesti con più cura o con meno cura del solito?
Il 35% ha dichiarato con più cura, il 65% con meno cura. I commenti associati alla risposta sono stati: “divento meno esigente nella ricerca dell’abito dopo aver passato molto tempo a casa”, “metto sempre le stesse cose, raramente scelgo qualcosa di diverso dal solito”, “quando a casa indosso la tuta, tendo ad usarla anche per uscire curandomi di meno”, “ahimè mi vesto sempre allo stesso modo,” “le rare volte in cui sono uscita ho cercato di curarmi anche se mi sembrava quasi inutile”. In alcuni casi l’adottare un abbigliamento più casual è stato vissuto come positivo nel senso di una maggiore autenticità in altri con dispiacere e senso di perdita.
Ho poi cercato ricerche sull’argomento e ho trovato un interessante studio di TOG che per celebrare l'apertura del loro nuovo spazio di lavoro creativo, Liberty House, ha commissionato un sondaggio con 2.000 impiegati nel Regno Unito per esplorare gli atteggiamenti nei confronti della moda, del guardaroba da lavoro e dell'ambiente di lavoro post-pandemia.  I dati sono stati analizzati dalla dottoressa Carolyn Mair (autrice del libro The Psychology of Fashion), e sono presentati in un report che puoi trovare qui. 
Lo studio è particolarmente incentrato sull’analisi dell’abbigliamento adottato durante la pandemia e le ipotesi di abbigliamento che saranno adottate post, senza soffermarsi troppo sugli stati emotivi prodotti dai vestiti indossati.
La ricerca ha rilevato che il comfort è stato considerato la massima priorità per l'abbigliamento da lavoro, seguito dal bisogno di apparire professionali e la necessità di vestirsi per adattarsi ai colleghi.
I lavoratori si sono adattati alla situazione e sebbene l'athleisure sia diventata la tendenza nel lavoro da casa (il 42% delle persone ha affermato di aver indossato pantaloni della tuta durante il lavoro a casa) gli intervistati hanno dichiarato che non l’avrebbero adottato in ufficio dopo la pandemia (solo il 4% ha dichiarato che avrebbe continuato ad indossarlo), propendendo piuttosto per un approccio smart casual allineato al proprio stile personale.
Circa 1 intervistato su 3 (29%) ha affermato che non vede l'ora di tornare a nuovi abbinamenti e diversi outfit al rientro in ufficio. Oltre un terzo (34%) degli intervistati ha detto che avrebbe comprato vestiti mentre solo meno di un terzo (31%) ritiene che i vestiti nuovi sarebbero un “bel modo per festeggiare la fine del lavoro domestico a tempo pieno ”.

Conclusioni

Dalla ricerca mi sembra emergere uno scenario nel quale casa e lavoro continueranno ad avere codici distinti in termini di dress code che saranno però più vicini di quanto non siano oggi.
Mi pare che in questa ottica il driver nelle nostre scelte stilistiche sia il contesto, semplificando molto: a casa la tuta, a lavoro la giacca, etc. con il conseguente pensiero quando tornerò al lavoro metterò….e nel mentre rischiamo di sentirci frustrati perché nel frattempo l'abbigliamento che indossiamo definisce il nostro standard, quello che facciamo, quello che sentiamo, come ci vediamo.
E se spostassimo il driver dal contesto all’attività cosa cambierebbe?
Vale a dire anziché considerare nella scelta dove sono, considero cosa faccio e quindi  se sono a casa e sto lavorando, posso aiutare il mio cervello a lavorare meglio vestendomi di conseguenza dando la priorità all’efficienza (mi riferisco al tema Enclothed Cognition) per tornare a dare la priorità alla comodità, con abiti morbidi, nel momento in cui termino di lavorare.
E se poi sposto ancora il punto di vista dall’attività al mio io, vale a dire dal cosa faccio al chi sono in questo momento/contesto/situazione cosa cambia?
Ecco qui secondo me sia crea un’opportunità interessante, un cambiamento più ampio che integra le diverse parti del nostro sé lasciando spazio ad un compromesso che tiene insieme l’efficacia (del cosa faccio), la comodità (del dove sono), con l’effetto di aumentare le nostre possibilità di azione e il nostro benessere.



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Abbigliamento come riduttore di complessità

2/9/2020

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I vestiti hanno un effetto a livello cognitivo e quindi un potere se gli attribuiamo dei significati, in questo modo l’abbigliamento ci fa entrare in uno stato d’animo.
Sono diverse le modalità attraverso le quali attribuiamo significati:
  • Il modo più semplice ed immediato è attraverso l’associazione ad esperienze, ad esempio ho indossato un abito ad un colloquio ed è andato bene, idem indossandolo ad alcuni altri incontri  importanti, è probabile che lo assocerò al concetto di riuscita e successo e tenderò ad utilizzarlo come portafortuna, amuleto, talismano che dir si voglia per replicare l’esperienza positiva.
  • Altro modo è attraverso l’associazione di una sensazione, ad esempio io quando indosso i tacchi mi sento più alta e questo mi fa sentire più forte, oppure abiti più aderenti mi fanno sentire più femminile. Qui è un aspetto sensoriale che definisce un’attribuzione di significato, tenderò ad usare quel capo o accessorio nelle situazioni in cui voglio o ho bisogno di…
  • Altro modo ancora è attraverso l’associazione di un pensiero , associo ad un capo di abbigliamento l’idea , che sia lussuoso,  oppure sia grintoso. Qui l’opinione sulle sue caratteristiche mi consentirà di usarlo per quello scopo.
  • Per concludere cito l’associazione di opinioni di altri, vale a dire qualcuno mi ha detto che con quel capo appaio raggiante, oppure appaio professionale e pian, piano diventa anche una mia attribuzione e lo indosso sulla fiducia e magari si innesca un circolo virtuoso.
 
Se hai notato ho citato tutti esempi “positivi” perché stiamo parlando di poteri dell’abito, ma vale la pena sottolineare che le attribuzioni di significato le facciamo anche al negativo, anzi purtroppo credo siano più numerose e quindi capita che certi capi o accessori li collego ad esperienze che giudico brutte, oppure mi fanno sentire  a disagio, oppure penso che siano troppo o troppo poco,  o qualcuno mi ha detto che mi fanno quel tale brutto effetto, etc.  Di solito succede che questi  capi evitiamo di indossarli, non comprandoli o se li abbiamo lasciandoli nell’armadio, ma di questo ne parleremo in un’altra occasione.
Naturalmente ogni capo può contenere tutte le casistiche associative che ho citato, quindi gli collego un’esperienza, una sensazione, un mio pensiero e un feedback, ma di solito è più facile rintracciare un aspetto dominante.
 
C’è poi una parte di potere dell’abito che agisce a nostra insaputa, e quindi al di là dell’attribuzione di significato, o meglio dell’attribuzione consapevole, colori, forme, temperatura, consistenza, etc. generano effetti fisiologici ed effetti per significati che come esseri appartenenti alla specie umana gli attribuiamo o come direbbe Jung per effetto dell’inconscio collettivo, dei suoi simboli e dei suoi archetipi.
Ad esempio il potere dei colori conta su variazioni fisiologiche che avvengono al di là che si conoscano gli effetti  e al di là del gusto personale, per esempio il rosso accelera il battito cardiaco e rende più attenti, il blu lo abbassa e rende più calmi, il fatto poi di amare o meno un colore piuttosto che un altro modulerà l’intensità dell’effetto amplificandolo o riducendolo.
 
Il punto che trovo interessante è che più si diventa consapevoli delle diverse attribuzioni, più si sfrutta il potere dell’abito. Ci muoviamo in contesti complessi con numerose variabili, io considero l’abbigliamento una variabile che se aggiunta riduce questa complessità, quindi un riduttore di complessità.
Ad esempio se mi presento ad un colloquio di lavoro e voglio generare un’impressione professionale e autentica, conoscere cosa di me e delle mie estensioni vestimentarie mi fa apparire e sentire autentica e professionale ridurrà la complessità della prima impressione e mi permetterà di concentrarmi sulla relazione.
Poi certo lo abbiamo detto più volte la variabile “soggettività” del nostro interlocutore farà il resto.


Nota: L’immagine è tratta  dalla collezione Epilogo di Gucci presentata durante la Digital Fashion Week . Una delle domande che ha ispirato Alessandro Michele  è stata: “che cosa succede alla comunicazione quando cessa di diventare un atto unilaterale?”
 

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Abbigliamento, una costante antropologica

10/7/2020

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La storia dell'abbigliamento coincide con la nostra storia di esseri umani, l’esigenza di modificare il nostro aspetto è una costante antropologica.
Più che proteggersi dagli agenti fisici atmosferici, l’uomo dalla notte dei tempi ha sentito l’esigenza di proteggersi da agenti magici, a questo si deve l’uso di pelli e amuleti tratti dai trofei conquistati, così come l’abitudine di dipingere il corpo o applicare ornamenti di vario genere.  La credenza era che in questo modo la forza sarebbe passata al proprietario attraverso un processo di identificazione.
Inoltre più che nascondere e coprire gli abiti, nelle popolazioni primitive, sembrano aver avuto la funzione di attirare l’attenzione, come affermano diversi studiosi.
Ed accade così che quello che si è realizzato nel corso della storia si ripete nella vita dell’individuo: l’uomo delle caverne indossa le pelli dell’animale conquistato e  il bambino si mette il vestito del padre, o la bambina quello della madre, il teenager indossa abiti simili alla sua rock star preferita, l’uomo in carriera gli accessori e i vestiti che rappresentano status symbol.
Insomma l’abbigliamento consente di appropriarsi di qualità desiderabili di altro e altri e lo fa attraverso le forme, i colori, i simboli facendosi strumento per comunicare informazioni, strumento di inclusione e di esclusione, strumento per creare identità e identificazione.
In questo contesto la psicologia può essere di grande utilità per svelare significati, cogliere collegamenti, accrescere consapevolezza sulle dinamiche in gioco permettendoci di aumentare il nostro benessere e la nostra efficacia.
Mi piace parlare a questo proposito di Psicologia dell’Abbigliamento che secondo me permette di passare dall’azione del “mettersi addosso” all’azione del “vestirsi”.
Ho messo a fuoco questa distinzione grazie alla lettura dell’editoriale del direttore di Vogue in un articolo di Franca Sozzani che titolava proprio “Indossare o vestirsi?”
La distinzione della Sozzani era incentrata su: “il giusto equilibrio fra il bello e l'eccessivo”. La sua argomentazione puntava in particolare sulla personalizzazione, sull’originalità, intimando a portare la moda, facendo degli abiti una forma  di comunicazione ed espressione della propria estetica e originalità.
La distinzione declinata in chiave psicologica passa secondo me dalla consapevolezza delle proprie risorse (in fatto di immagine e identità) e dalla messa a fuoco dei propri obiettivi e progetti, affinché l’abbigliamento diventi parte integrante di un lavoro sul dentro e fuori per supportare la propria crescita e sostenere il processo di cambiamento che si desidera realizzare.
In questo quadro vestirsi diventa quindi un comportamento attivo consapevole, libero, divertente e arricchente, mentre mettere addosso risulta un comportamento passivo determinato da disinformazione su di sé, disinteresse, insicurezze, paure, rinunce e rassegnazione.
Faccio una precisazione sul “mettersi addosso”, ne parlo nei termini di sopra quando questo determina un disagio per la persona che vorrebbe altro, quando cioè l’abbigliamento è un effetto del nascondersi, del vorrei ma non posso o non so come fare, della necessità di proteggersi, di mettere delle distanze. Differente è il caso in cui una persona non ha alcun interesse per l’abbigliamento e la cosa non è per lui/lei affatto un problema.
Concludo questa disamina con un’ultima precisazione, parlo di  Psicologia dell’Abbigliamento e non di Psicologia della Moda perché come ho descritto all’ inizio di questo post ritengo l’abbigliamento una costante antropologica che ci definisce e ci appartiene indipendentemente dalla moda e che a livello di lessico e semantica sento più vicina ed è per questo che la Psicologia dell’Abbigliamento è la cornice teorica di riferimento del metodo Dai Forma e Colore al tuo Stile, se vuoi approfondire di cosa si tratta trovi qui le info.
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