Gli eventi in ordine cronologico sono stati: il 2 marzo Adam Sandler alla 97ª edizione degli Academy Awards nella quale si è presentato vestito con felpa e pantaloncini da basket, il 9 marzo Alessandro Michele, direttore creativo della Maison Valentino, alla sfilata parigina autunno/inverno 2025-26 ha ricreato l’ambientazione di un bagno con lavandini, specchi e armadietti da spogliatoio.
Infine il 10 marzo il talk “non è un paese per brutte” a cura di Valore D, che ha visto la partecipazione di Maura Giancitano, filosofa e scrittrice, come moderatrice e tre donne in rappresentanza di categorie soggette a stereotipi: Lara Lago, giornalista e body activist, Loredana Lipperini, scrittrice, conduttrice radiofonica e attivista culturale e Nogaye Ndiaye, scrittrice e divulgatrice antirazzista.
Cosa hanno in comune i tre eventi?
Tutti parlano in un modo o nell’altro di bellezza, di canoni estetici, di cosa ci si aspetta nella nostra cultura occidentale, e di conseguenza di cosa sia opportuno e cosa non lo sia e dei possibili effetti nei casi di devianza dallo standard tracciato.
Sandler e Alessandro Michele hanno attirato giudizi divisi, nel caso di Sandler è stata apprezzata l’autenticità, la capacità di rimanere fedele a se stesso, qualcuno ci ha visto un atto politico (si veda la critica all’abbigliamento di Zelenskyy nell'incontro con Trump), qualcun altro si è semplicemente fatto una risata e qualcun altro ancora lo ha criticato, in primis il conduttore che lo ha paragonato ad un giocatore di poker della tarda ora notturna, che fosse una gag preparata oppure no, l’episodio fa riflettere, Sandler stesso ha dichiarato di non interessarsi a quello che indossa, gli piace il suo look, si reputa una brava persona e questo è quanto.
Nel caso di Alessandro Michele chi lo ha elogiato ha colto il suo genio nel fondere il nuovo con il retrò e il massimalismo con l’ecletticità per esprimere da un lato la grande metafora dell’ossessione del tempo attraverso trasparenze, modelle non conformi ai canoni dell’età, e trovate di styling (capelli e volti tirati da elastici), dall’altro l’impossibilità di spogliarsi delle maschere che ogni giorno indossiamo ed esprimere un sé autentico come dice lui stesso immune dalle determinazioni della vita.
Le critiche non sono certo mancate da parte di chi ha visto invece l’incapacità di fare qualcosa di nuovo, la brutalità e lo squallore dello scenario e dei capi stessi che non rappresenterebbero affatto lo stile e l’eleganza di Valentino Garavani fondatore della Maison.
Un messaggio lo lancia lo stesso Michele durante e a fine sfilata con lo slogan nella t-shirt “apollon-dyonisos” che sta a rappresentare due stili contrapposti: la perfezione di Valentino verso il caos che caratterizza il suo estro.
Del talk di Valore D mi ha colpito in particolare un commento di un’ascoltatrice sull’importanza che dovrebbe avere “il diritto alla trascuratezza”, al quale le speaker rispondono sostenendo quanto sarebbe importante in un mondo che vuole le donne belle, brave e performanti che a venir valutate fossero le competenze, lasciando sullo sfondo tutto il resto, di qui le considerazioni sull’opportunità, in un contesto di selezione, di omettere/non mostrare informazioni su di sé potenzialmente penalizzanti (sesso, etnia, caratteristiche fisiche) attraverso curricula anonimi e colloqui al buio. La risposta che hanno dato le invitate è stata un “no grazie”, bisogna essere più ambiziose, occorre puntare più in alto, in un cambio di mentalità e paradigma. Il punto di arrivo deve essere il venire viste nella totalità senza vedere cancellate parti di sé.
A questo punto tento una sintesi:
Adam Sandler e l’orgoglio di essere se stesso sempre, ovunque e comunque.
Alessandro Michele in modo analogo propone in un mondo apollineo il suo spirito dionisiaco, in definitiva anche qui il suo essere se stesso a qualunque costo.
Il talk di Valore D tra i diversi messaggi propone una sfida ambiziosa: non omettere nulla di sé per farsi guardare ed essere viste per chi si è nella propria totalità, in definitiva essere pienamente se stesse.
Ora ho due domande che mi girano per la testa: quanto è fattibile oggi, nella nostra cultura occidentale, con la nostra dotazione cognitiva piena di bias realizzare questo intento?
E in modo più provocatorio mi chiedo ma è davvero utile per noi mostrarci nella nostra totalità, ci fa davvero un buon servizio?
Non vorrei essere troppo pessimista ma sulle prime mi viene da dire che sia davvero un’impresa epica, la penso un po’ alla Homer Simpson quando constata che tutte le sue camicie sono diventate rosa causa lavaggio sbagliato e dice di non poterla indossare una camicia rosa al lavoro: “Non sono abbastanza popolare per essere diverso” dice a sua moglie Marge.
Quanti di noi al lavoro possono vestirsi alla Sandler senza venir giudicati negativamente?
Quanti di noi possono esprimere al 100% il proprio estro in una presentazione con un nuovo cliente, con un nuovo capo, senza godere del beneficio del dubbio sulle proprie capacità?
Quanti ad un colloquio di lavoro o in un meeting importante possono raccontarsi al 100% senza il rischio di essere fraintesi, non completamente capiti?
E non credo che sia solo per incapacità di chi sta dall’altra parte, conosco il lavoro che fanno head hunter e manager per andare al di là degli stereotipi, per praticare un buon ascolto che abbassi la voce del pregiudizio, certo c’è ancora tanto lavoro da fare ma tanto se ne sta già facendo in termini di divulgazione e studio.
La questione è che anche quando pensiamo di sapere cadiamo nelle trappole dei bias, certe cose succedono al di là della nostra consapevolezza, la nostra mente non è solo nel cervello ma in tutto il corpo (si vedano gli studi dell’embodied cognition) che reagisce nonostante le informazioni che possediamo, le regole che conosciamo, i valori in cui crediamo e così succede che il “diverso” in prima battuta è più nemico che risorsa, è più rivale che alleato, è più fatica che beneficio. Questo non deve essere un alibi per non lavorare sugli stereotipi, per non impegnarsi in operazioni di decostruzione, o in attività di formazione, studio e divulgazione.
Tuttavia se non siamo pienamente risolti, tranquilli, sicuri del nostro valore (per dirla alla Sandler) o ancora non ci siamo guadagnati sufficiente popolarità e credibilità (per dirla alla Homer) possiamo fare un’operazione strategica senza viverla come un ripiego, con amarezza, vergogna o come un trucchetto, come mi pare siano state vissute le strategie raccontate nel talk di Valore D, ma al contrario come l’esercizio di una competenza del cui valore sono fortemente convinta.
Si tratta del passare dal paradigma dell’apparire a quello del mostrarsi adottando l’accorgimento della giusta misura e arrivare quindi a presentarsi “secondo misura”. In diverse altre occasioni ho parlato del “good looking”, diverso tempo fa in un articolo di giornale avevo trovato questo concetto, dell’economista Francesco Daveri scomparso qualche anno fa, sul sapersi presentare, che diceva che se nella bellezza non c’è merito il sapersi presentare è una competenza reale.
Decidere cosa raccontare di volta in volta, di contesto in contesto, di persona in persona è una competenza relazionale e sociale, ma non è solo questo è anche qualcosa che fa bene al nostro corpo e alla nostra mente.
Mi spiego meglio, poniamo che voglio essere me stessa sempre al 100%, e che posso farlo perché vivo in un mondo in cui non esiste il giudizio o meglio il pregiudizio negativo relativamente a certi aspetti, e poniamo che la mia indole nell’abbigliamento mi porti a vestire abiti molto pratici, comodi, un po’ larghi, scarpe basse e ginniche, quello che succede è che creo nel mio corpo, per effetto dell’embodied cognition e dell’enclothed cognition, sensazioni di rilassatezza, calma, e se questo è il mio mood prevalente la mia zona di comfort mi può portare sino agli eccessi di inattività, indolenza, pigrizia, che si traduce anche in un pensiero più piatto. Diversi studi hanno dimostrato ad esempio che vestire in modo più formale stimola maggiormente il pensiero astratto rispetto all’abbigliamento più casual.
Dall’esperimento del camice bianco le ricerche sulla cognizione vestita si sono moltiplicate e hanno dato evidenza che gli abiti che indossiamo ci fanno fare cose diverse: le punte ci allertano, le curve ci rilassano, tessuti morbidi ci rendono più accoglienti, tessuti rigidi ci rendono più resistenti, colori caldi ci avvicinano, colori freddi ci allontanano.
Avere queste informazioni e usarle a mio avviso ci rende più competenti e ci può far stare meglio, se mi vesto in modo pratico e comodo personalmente sono nella mia zona di comfort ma ho constatato che giorno dopo giorno viene rinforzata la mia introversione, divento più chiusa e svogliata, quando sono triste e indosso qualcosa che per me è bello, che ha un colore con un livello di energia alto, con forme accoglienti ho sperimentato in prima persona un miglioramento dell’umore, se per un evento importante ho scelto un abito che ritengo starmi bene e che mi piace trovo che sia un alleato alla buona riuscita dell’iniziativa, se conduco un colloquio di selezione e voglio ottenere un buon risultato so che non devo indossare certi colori e certe forme (cronache di vita vissuta nel mondo hr con feedback ricevuti da candidati), questi non li reputo trucchi, sono il risultato di quello che ho imparato studiando i vestiti, sono una competenza acquisita al pari della proprietà di linguaggio, del pensiero laterale e del lavoro di gruppo.
Dunque per tornare alla domanda iniziale: quanto è possibile assecondare il proprio stile e uscire indenni dal confronto con gli standard sociali che ci vogliono belli, eleganti, con caratteristiche socialmente desiderabili?
Mi viene da dire che dipende da come stiamo a livello di habitus (assetto di personalità interna) e di diritti e privilegi acquisiti a livello di contesto.
Ritengo che sia molto fattibile uscire indenni dal confronto sociale se siamo sufficientemente attrezzati a livello di personalità. Secondo la teoria del completamento simbolico del sé se ci sentiamo incompleti, tenderemo a completarci con gli oggetti (semplificando molto: se mi sento vulnerabile mi corazzo con una giacca, se mi sento poco intelligente metto degli occhiali da studiosa, se mi sento piccola mi metto i tacchi), va da sé che se il nostro Sé è completo, il problema non sussiste, questo è quello che ci ha mostrato Adam Sandler.
Se il nostro habitus ha la stoffa dell’insicurezza, dell’autostima bassina, della sensibilità al giudizio altrui meglio andare per gradi, presentando di occasione in occasione una versione di sé tailor made, il guadagno sarà la credibilità per poter poi spendere la propria diversità e così si arriverà al punto di potersi permettere di indossare una camicia rosa tra mille bianche, questo è quello che ci ha mostrato la sfilata di Alessandro Michele. Questo risultato lo possiamo raggiungere anche ponendo attenzione a ciò che indossiamo.
Indipendentemente dal nostro habitus che potrà essere più o meno di buona qualità, se rientriamo in un target molto segnato da iniquità, pregiudizi e stereotipi, ci vogliono azioni di sistema che passano da strumenti e strategie più forti: norme, regole, obblighi, divieti, leggi sui quali purtroppo come singoli poco possiamo fare e quindi si ritorna al punto 1 e 2 per quello che possiamo fare nel nostro piccolo.