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Voglio una vita glitterata!

31/8/2023

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Vasco Rossi cantava voglio una vita spericolata, nel trattare l'argomento di questo post potrei invece dire voglio una vita glitterata o meglio ancora "glimmerata", da glimmer.
I glimmers, letteralmente bagliori, sono stimoli, sensazioni, esperienze che attivano benessere e senso di sicurezza, ne sono esempi, fare uno sport che ci piace, prenderci del tempo per leggere, vedere quel film che aspettavamo, dedicarsi alla beauty routine, fare colazione in quel posticino carino, indossare quel vestito che ci piace tanto, etc.
Si tratta di pillole di benessere che possiamo assumere quotidianamente come dose di gioia e sicurezza.

Il concetto è stato elaborato all'interno della teoria polivagale di Porges che spiega come interviene il nostro sistema nervoso autonomo difronte a sfide, minacce, traumi e stress, differenziando il concetto di trigger come innesco dello stress e di glimmer come strumento di benessere e senso di sicurezza.
Se l'argomento ti interessa in fondo all'articolo un breve approfondimento della teoria.

Quello che ai nostri fini è importante sapere è che il nostro sistema nervoso autonomo trauma, dopo trauma, stress dopo stress, rischia di perdere la sua flessibilità. 
Il suo funzionamento armonico si inceppa rimanendo bloccato in una sola modalità di risposta, ad esempio una esagerata reattività, o al contrario un ridotto coinvolgimento sociale e generale stato di appiattimento, perdendo così il senso di sicurezza e benessere e laddove non c'è sicurezza la nostra energia rimane intrappolata in una costante difesa, in questa condizione possiamo sopravvivere ma non vivere con pienezza e soddisfazione.
La soluzione ça va sans dire è glimmerare la nostra vita, aiutando così il nostro sistema autonomo a ritrovare il suo ritmo armonico nel fronteggiare stress, minacce e traumi.

Come fare a procurarci una vita glimmerata? 
La risposta sta nell'adagio "chi cerca trova". 
I momenti felici non ci cascano addosso, o almeno non sempre, li possiamo trovare cercandoli tra le nostre preferenze, o ispirandoci con ciò che piace ad altri, per vedere se funziona anche per noi. Ed ecco alcune strategie:
  • la letteratura sul tema consiglia di tenere un diario nel quale annotare ciò che ci fa stare bene e ci fa sentire al sicuro,
  • altro accorgimento e quello di sostare nei nostri momenti di benessere, vale a dire farci caso, e prenderne consapevolezza per poterli replicare,
  • anticiparli, creandoci piccole ricompense e gratificazioni giornaliere,
  • creare un ambiente gradevole, a partire dai colori, dagli odori, suoni, etc.,
  • usare noi stessi come fonte, dal di dentro, coltivando punti di vista plurimi e pensieri utili al nostro benessere e fuori usando il nostro guardaroba.

Dal glimmer al glitter del tuo guardaroba
Qui mi soffermo un po' di più, perché è proprio per questo motivo che ho ideato il guardaroba delle stagioni interne, per avere ogni giorno la possibilità di creare benessere con i vestiti che indossiamo, attraverso i loro colori, materiali, stampe, tagli e vestibilità.

Ogni stagione ha le sue caratteristiche e un guardaroba che la rappresenta, pescare dai diversi stili ci consente di avere con noi un rimedio vestemico a lento rilascio di cui possiamo beneficiare nell'arco dell'intera giornata.
E a seconda della condizione che vogliamo sperimentare abbiamo diverse opzioni di look da cui partire.
Se quello che mi fa stare bene è qualcosa di morbido e avvolgente, il guardaroba della stagione interna Autunno mi offrirà un'ampia scelta, tra le sue lane e jersey, i tagli ampi e scivolati e i suoi colori tenui e discreti.
Se invece per stare bene ho bisogno di luccichii e bagliori, sarà allora la Primavera a fare al caso mio, con sete, rasi, tulle, tagli femminili e colori vibranti.
Se a farmi brillare gli occhi è l'eleganza, il guardaroba Estate, con i suoi tessuti preziosi, il taglio classico e la silhouette asciutta faranno al caso mio.
Infine se il mio benessere dipende da protezione e riservatezza, gli strati, le asimmetrie e i colori profondi dell'Inverno saranno la mia soluzione.

In definitiva possiamo abbagliarci con l'abbigliamento indossando fantasie, colori, tessuti in modo intenzionale e consapevole in modo da trovarci conforto e sicurezza e muoverci, in ogni momento, con più agio.


Approfondimento teoria polivagale - Come funzioniamo?
Un interessante contributo alla spiegazione di come funzioniamo nella risposta ai traumi e allo stress arriva dalla teoria polivagale di Porges. Semplificandola molto possiamo dire che in situazioni standard durante la giornata, a seconda di ciò che viviamo, vi è  una armoniosa fluttuazione all'interno del sistema nervoso autonomo (che interviene di fronte a sfide e minacce), tra le sue due componenti che sono il sistema simpatico (provoca attivazione) a quello parasimpatico (provoca quiete).
La teoria polivagale ha spiegato che il sistema parasimpatico si è formato un due periodi diversi, abbiamo una formazione più primitiva che mantiene l’equilibrio e il controllo delle funzioni viscerali di base (stomaco, intestino tenue, colon, vescica) e una più recente che guida i muscoli del volto, la voce e il respiro. La formazione più recente difronte a situazioni di pericolo emette risposte più "mature", ad esempio la comunicazione, il sorriso, la ricerca di uno scambio con l'interlocutore, un effetto calmante sul respiro e sul cuore. Il circuito più antico invece ha come reazione il collasso.
Se questo è il ruolo del parasimpatico, non dimentichiamoci che c'è anche il simpatico a fare la sua parte, e così per completare il quadro avremo che in caso di pericolo il nostro funzionamento, nell'ordine prevede:
  • parasimpatico recente che gioca le carte del parlare, respirare, sorridere, etc, se non sono sufficienti interviene
  • il simpatico che ha dalla sua la capacità di attivare e preparare il corpo all'attacco o alla fuga  (accelerazione battito cardiaco, maggior sangue ai muscoli, etc.) e in ultimo se tutto questo non ha funzionato entra in gioco
  • il parasimpatico più antico con una perdita dei sensi, uno svenimento, un collasso.
I glimmers hanno una funzione molto importante nell'aiutare il sistema nervoso autonomo ad uscire dai blocchi e ritrovare il suo funzionamento aromonico.



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Perchè ci vestiamo come ci vestiamo?

20/7/2023

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Perché qualcuno si veste in modo super elegante, qualcuno in modo eccentrico, qualcun altro in modo super comodo e qualcun altro ancora sembra non avere alcuna affinità con i vestiti?
A questa domanda la risposta che sento più frequentemente suona più o meno così: "dipende dal fatto se una persona ha stile/gusto, ed è una cosa che si ha o non si ha".

Questo modo di vedere le cose a mio avviso contiene il giudizio che lo stile sia tout court sinonimo di eleganza e bello e che sia una dote o una competenza che o si possiede oppure non ci sia nulla da fare.
E se invece prendessimo il termine in modo neutro?
Prendo alcune righe dal dizionario, che così definisce lo stile: insieme dei mezzi espressivi che costituiscono l'impronta di una persona o un gruppo.
Guardandola in questo modo, ci rendiamo conto che uno stile lo abbiamo tutti, da chi si veste all'ultima moda a chi si dichiara totalmente analfabeta rispetto agli abiti.
Ciascuno di noi ogni giorno fa delle scelte su cosa indossare, il risultato contempla degli scarti e dei consensi, e prima ancora ci saranno state delle scelte riguardo a cosa acquistare e far entrare nel proprio guardaroba, anche in questo caso ci saranno stati capi scartati e capi scelti.
Il mio interesse è sempre stato di comprendere cosa fa sì che ciascuno di noi scelga proprio quello che sceglie e scarti altri elementi.


L'abito e l'habitus
L'habitus è un sistema di schemi di percezione, pensiero e di azione, che ciascuno matura nei diversi contesti di vita e che risultano prevedibili e durevoli. L'habitus rappresenta quindi il nostro stile di pensiero, relazionale e comportamentale che ci orienta (anche) in fatto di abbigliamento.
Ed ecco che se il mio habitus è fatto di:
  1. estroversione, velocità, competitività, desiderio di emergere, interesse per le cose belle e lussuose, il mio abito molto probabilmente sarà di pregio, formale o comunque elegante, con elementi status symbol.
  2. estroversione accompagnata da interesse per le relazioni, per il divertimento, la condivisione, la voglia di visibilità e di riconoscimento,è prevedibile che il mio abito sarà spontaneo, espressivo, creativo e originale.
  3. introversione, sensibilità, empatia, disinteresse per la mondanità e l'apparire, il mio abito è probabile che sarà comodo, casual, per nulla appariscente, al contrario discreto e sobrio.
  4. introversione, individualità, quasi avversione per la socialità, desiderio di stare al riparo dal frastuono dell'esterno molto probabilmente l'abito seguirà questo schema diventando poco interessante e utile se non per la sua funzionalità.
Queste categorie sono grossolane e imprecise, ma hanno la funzione di semplificare il concetto rendendolo più comprensibile attraverso alcuni esempi, in modo più diffuso la mia traduzione dell'habitus in abito l'ho realizzata in un sistema che ho chiamato Stagioni Interne.
Tornando quindi alla domanda iniziale "perché ci vestiamo come ci vestiamo", la risposta per me non può che essere: dipende dall'habitus che ciascuno di noi ha sviluppato a partire da delle predisposizioni e attraverso le sue esperienze di vita e sebbene l'habitus sia prevedibile e durevole non è immutabile!
 
Piacersi dentro e/o fuori
Qui vorrei esplorare la relazione tra abito e habitus in termini di soddisfazione, vale a dire quanto ci piacciamo dentro e/o fuori.
Nei tratti in cui parlo di insoddisfazione non mi riferisco a una lieve insoddisfazione, bensì ad un livello già discreto che mette la persona che la prova in difficoltà. Le casistiche che ho avuto modo di osservare sono più o meno queste:
  • a) piacersi dentro e fuori (ovvero essere soddisfatti di habitus e abito): in questo caso la persona si piace interiormente e si piace anche nell'abbigliamento, alla domanda "cosa vorresti di diverso nel tuo guardaroba" di solito la risposta è: "nulla mi piace quello che ho e che indosso", allo stesso modo c'è un riconoscimento delle proprie risorse e un buon livello di soddisfazione rispetto al proprio sé. Quanto al feedback esterno qui può capitare che sia positivo e dall'esterno venga riconosciuta la gradevolezza del look, in termini di eleganza, buon gusto, originalità, etc. Altre volte invece il feedback positivo dall'esterno non c'è, in questi casi la persona può rimanere indifferente ai commenti esterni e fedele alla sua soddisfazione, oppure essere spinta nella casistica seguente, che a breve vedremo. 
    In generale questa categoria è secondo me quella di chi, relativamente risolto, sa vedersi nella sua totalità, si apprezza, e si comunica in modo autentico e spontaneo. L'abito diventa una estensione, una manifestazione, un'espressione dell'habitus.
  • b) piacersi dentro ma non fuori (ovvero essere soddisfatti dell'habitus ma non dell'abito): qui per me rientrano in particolare due casistiche quella per la quale l'insoddisfazione verso l'abito è soggettiva e personale, e un'altra, quella a cui facevo riferimento nel punto precedente, nella quale la persona si piacerebbe ma viene indotta verso un cambiamento e in qualche modo la questione abito diventa "critica".
    Entrambe hanno in comune la consapevolezza delle proprie qualità positive dal punto di vista interiore, del proprio valore, poi in un caso capita che la persona senta che quel valore non riesce a trasmetterlo attraverso l'immagine che vede come disallineata e priva di appeal.
    Nell'altro caso invece la persona si piace o non ha un particolare interesse verso l'abbigliamento, perchè le cose importanti sono altre, o semplicemente perché è cresciuta in contesti che a loro volta non avevano cultura in merito, in questo caso la questione abbigliamento diventa "problematica" nella misura in cui si trova in ambienti che richiedono un certo livello di statement o dress code o c'è una crescita o un cambiamento che richiede anche un'immagine più "curata" o c'è qualcuno di molto vicino (un partner, un familiare, etc.) che esprime opinioni spesso non richieste o fa esplicitamente richieste di cambiamento dell'immagine perchè non rientra nel suo gusto personale.
    Questa categoria è dunque quella di chi da un lato chiede all'abito un upgrade dell'immagine per fare un miglior servizio alla propria persona, dall'altro chiede di bilanciare qualcosa che manca (es. maggiore professionalità, standing, etc). In termini psico si parla di completamento simbolico del sé.
  • c) non piacersi né dentro né fuori (ovvero essere insoddisfatti dell'habitus e dell'abito): qui c'è un effetto alone che va dall'interno verso l'esterno e viceversa per cui la persona si sente incapace, priva di qualità e naturalmente con un'immagine inadeguata.
    Qui la condizione a mio avviso merita ascolto, e rimando la trattazione al termine dell'articolo.
  • d) piacersi fuori ma non dentro (ovvero soddisfazione per l'abito ma non per l'habitus): su questo punto mi sono confrontata con un piccolo campione, una ventina di persone (18 donne e 2 uomini). Ho coinvolto il campione perché personalmente non ho mai osservato la situazione di chi sia realmente soddisfatto di come si veste, ma non della propria dimensione interiore. Quello che più volte mi è capitato di osservare è di vedere qualcuno che a fronte di una bassa considerazione di sé, se vestito e truccato da professionisti si vedesse bene e risultasse soddisfatto nell'immediato dell'immagine restituita dallo specchio, ma dovendo poi replicare gli stessi look in momenti differenti l'effetto non era più lo stesso, come se sentisse un'aura di inautenticità.
    Oppure mi è capitato di osservare situazioni nelle quali a fronte  di un feedback positivo largamente condiviso dall'esterno sull'abito, questo non fosse sentito dalla persona che vittima di insoddisfazione verso l'habitus non faceva suo il piacere della propria immagine.
    O ancora una iper attenzione al look il cui risultato era buono per la persona ma che sosteneva un costo molto alto, in termini di controllo, impegno e tempo e che per questo non mi sembra possa essere soddisfacente nel processo.
    Tornando al campione intervistato, a fronte della domanda: "conosci qualcuno che si piace esteriormente, soprattutto per come si veste, ma non si piace per le sue caratteristiche interne, cioè si sente adeguato nel look, ma ha una bassa considerazione di sé"  in generale il campione ha dichiarato la difficoltà di rispondere perché se da un lato è più facile avere un'opinione sulla dimensione interiore, risulta più difficile comprendere se realmente una persona si piaccia nell'aspetto estetico,  in ogni caso 16 intervistati  hanno dichiarato di non conoscere nessuno rientrante nella casistica, 4 hanno dichiarato di avere in mente alcune persone che vi rientrano, argomentando un po' la risposta in alcuni casi  è riscontrato il piacere di vestirsi bene, o il percepire capacità, competenze nell'ambito (es. viene facile creare abbinamenti) o comunque la capacità nell'ambito non è in discussione, qualcun altro ha rilevato che l'aspetto è curato in modo quasi maniacale o sembrerebbe quasi una facciata per compensare delle carenze.
    Queste ultime considerazioni si accordano con il concetto di completamento simbolico del sé di cui accennavo sopra (quando ci sentiamo carenti/incompleti usiamo gli oggetti per completarci) così come quello delle autostime specifiche, vale a dire posso sentirmi adeguata in un ambito, in questo caso quello corporeo, e magari non in quello sociale.
    In questo caso l'abito pur non incidendo in modo sostanziale nella visione della dimensione interna, può essere usato come elemento dal quale partire per prendere consapevolezza sulle proprie risorse con un movimento dall'esterno verso l'interno.


Aumentare il livello di soddisfazione
Cosa possiamo fare per aumentare il nostro livello di soddisfazione verso le due dimensioni? Perchè direi che possiamo essere concordi nel dire che piacersi dentro e fuori sia la meta verso cui tendere!
Possiamo lavorare dal di dentro con percorsi che vanno dalla consapevolezza, alla crescita personale, sino alla terapia, e abbiamo visto che quando ci piacciamo dentro tendiamo a piacerci anche fuori, la soddisfazione per il proprio habitus è un requisito necessario ma non sempre sufficiente per stare bene nei propri panni (vedi casistica b) e questo perché non siamo monadi, isolate dal resto del mondo siamo in relazione, in confronto, e soggetti a influenze sociali, quanto più siamo in contesti che ci rispecchiano in termini di valori, interessi, bisogni, etc. ecco che davvero habitus e abito vanno a braccetto e diventano l'indicatore che stiamo proprio vestendo i nostri panni e il dentro e il fuori sono coerenti, autentici e armonici.
Oppure possiamo lavorare dal di fuori, individuando i vestiti nei quali ci sentiamo bene, spingendoci un po' più in là delle nostre consolidate abitudini, osando, fidandoci del feedback che ci arriva dall'esterno e vedere l'effetto che fa un cambio d'abito sull'habitus.
O ancora possiamo usare l'abito come indicatore per misurare il nostro livello di benessere, soprattutto quando un cambio d'abito ci viene richiesto dall'esterno perché da un lato può essere un' occasione di crescita, miglioramento e sviluppo di potenzialità che ancora non avevamo intuito, dall'altro può essere qualcosa che ci allontana da noi, può essere il campanello che ci invita a chiederci se è realmente quello che ci corrisponde e in linea con chi siamo.

Domande che tornano utili

Infine concludo questo articolo con alcune domande che possono tornare utili per lavorare su di sé attraverso l'abito
  • Sono soddisfatta della mia immagine?
  • C'è qualcosa che vorrei di diverso?
  • Ci sono dei feedback positivi che ricevo e che possono ispirare un cambiamento?
  • Cosa mi piacerebbe indossare che non indosso?
  • Cosa potrei iniziare a sperimentare,da questo momento, di nuovo per andare verso il cambiamento che desidero?
A te le risposte!
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Quando a sfilare è la persona(lità)!

27/6/2023

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Dress Your Story è un originale progetto che Amazon realizzerà in collaborazione con l’Istituto Europeo di Design di Roma e la PMI toscana Dalle Piane Cashmere.
Gli studenti dello IED di Roma realizzeranno i loro modelli a partire dagli interessi, dalle passioni, dai vissuti dei dipendenti amazon che poi li indosseranno: 25 bozzetti moda per 25 dipendenti Amazon.

In un articolo del blog di un paio di anni fa intitolato "indossa-ti" riflettevo sul ruolo degli stilisti che secondo me sono un po’ maghi perché creano di stagione in stagione la versione di chi saremo e mi chiedevo se di questo potere, di contribuire cioè a presentificare le condizioni che esperiremo, ne fossero consapevoli. Nella mia riflessione arrivavo alla conclusione che nel loro lavoro il focus non avrebbe tanto dovuto essere preoccuparsi di come sarebbero apparsi i loro vestiti ma soprattutto di come ci  sarebbe stato dentro chi li avrebbe indossati.

Ecco questo progetto a mio parere crea proprio quel contesto per far sì che gli abiti, corrispondendo ai proprietari, consentano loro di indossarsi guadagnando in stile & autostima.



Aggiornamento 13/7/2023
Presentati i 25 bozzetti di Dress your story
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Il fare come vestito dell'essere

25/5/2023

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In questi giorni ho rivisto in negozio una persona che non vedevo da tempo, passata di qui per un saluto.
Notando le differenze rispetto a qualche tempo fa: un bancone, una macchina da cucire ed una tagliacuci e dopo le consuete frasi di circostanza sul come stai, cosa fai, mi ha chiesto: “ma tu non eri una psicologa?” Sorridendo le ho risposto che facevo la psicologa e anche altro.

Quello scambio di battute mi è rimasto impigliato nei pensieri.
Pensavo all’essere e al fare, a questo dilemma. Faccio, dunque sono? Sono, dunque faccio? Sono a  prescindere? Si tratta di due entità, che come due insiemi si intersecano, oppure una contiene l’altra?

Nel modello del coaching ontologico trasformazionale  c’è una distinzione tra essere e fare. Il concetto è che il nostro essere è più del nostro fare, farli coincidere vuole dire dichiarare che se sono quello faccio, non posso essere altro, in questo modo blocchiamo la possibilità di un cambiamento, distinguere quello che siamo da quello che facciamo significa vedere quello che possiamo essere, quello che possiamo diventare e aprire così uno spazio per il cambiamento.
Sembra tutto molto chiaro.... in teoria....il mio primo pensiero è stato che effettivamente non posso più dirmi una psicologa per il fatto di non fare le cose che facevo prima, e poi subito a dirmi “eh ma così sto facendo quello che facevo notare ai miei coachee, ovvero scambiare il mio essere con il mio fare”.
 Lo vedo...tuttavia penso che il mio fare oggi sia davvero molto diverso da quello di un tempo: non sto più in aula 8 ore, non faccio più sessioni di coaching, non compilo più report, e proprio come c’è scritto nella mia bio: ho sostituito file con fili, monitor con specchi, pc con macchina da cucire, d'altro canto sono iscritta ad un albo professionale, quello degli psicologi, studio la psicologia dell'abbigliamento, conduco consulenze nelle quali si analizza lo stile comportamentale per vederne i risvolti stilistici.
Quindi con quello che faccio oggi chi sono?
Il nostro cervello funziona per categorie, definizioni, etichette e per associazioni spesso stereotipate, e in quanto tali imprecise ed errate, in questo scenario lo psicologo è quello della stanza d'analisi.
Sempre nella mia bio, scrivo che sono “un’inquieta d.o.c." che per me è un buon contenitore dei miei fare passati, presenti e probabilmente futuri, inoltre ci stanno dentro altre cose.
L’inquietudine è una caratteristica che mi ha portato a esplorare, studiare, sperimentare in diversi campi, dalla psicologia, all’immagine, al cucito, a concepire la manifattura dei capi in un certo modo, a dar valore al legame tra dentro e fuori, allo scrivere questo blog e così sono nati, dai forma e colore al tuo stile, il lessico dell’abbigliamento e la sua linea.

Ecco che quella definizione per me tiene insieme chi sono con tutti i fare che ne conseguono, con la specifica che in tempi diversi ci sono dei “fare prevalenti,” che da un lato rinforzano certe parti di noi, dall'altro ci ingannano facendoci pensare che siamo solo quello, invece le azioni si sommano tra di loro, si sommano alle aspirazioni, alle ispirazioni, ai bisogni, agli interessi e diventano me, quella che sono.
Parafrasando Kurt Lewin, il mio essere è più della somma del mio fare.

Con questa faccenda del “fare prevalente” mi è più facile comprendere che l’essere e il fare si possano scambiare e confondere è un po’ come dire che il fare è il vestito che noi osserviamo allo specchio e che gli altri guardano. A volte perdiamo l’abitudine di vedere cosa c’è sotto e creiamo un tutt’uno, altre volte abbiamo ben presente cosa c’è sotto e a seconda dei contesti e dei momenti lo adorniamo di conseguenza.

Tornando alla domanda iniziale: essere e fare sono distinti, la relazione è integrata: sono dunque faccio e così divento altro che mi porterà altro fare che a sua volta insieme ad altre dimensioni agirà sul mio essere.
Prestiamo attenzione a quando facciamo coincidere tutto il nostro essere con un unico fare e alleniamoci a vederne le diverse sfaccettature, a guadagnarne saranno l’abito e l’habitus.


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Mettere a fuoco nel guardare e nell'essere visti - Parte II

21/4/2023

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Continua dal precedente post la disamina delle sfocature che incontra il nostro cervello nella messa a fuoco dell'immagine nel guardare e di conseguenza nell'essere visti.


Luogo d’origine
I simboli vestemici attivano interpretazioni legate al luogo d’origine. Lo spiega bene Takoua Ben Mohamed, graphic journalist e illustratrice, che combatte i pregiudizi legati alla sua decisione di portare il velo.
Il video Look Beyond Prejudice racconta la quotidianità di una ragazza musulmana esposta a sguardi e parole giudicanti.

Età
Tendiamo, a seconda dell’età, a considerare le persone più o meno esperte. Ad esempio si accompagna all’età matura un concetto di esperienza per professioni di cura, mentre in campo informatico, marketing, social, digital il rapporto è inversamente proporzionale: più sei giovane più sei competente.
In ogni caso  l’abbigliamento formale, un tempo sinonimo tout court di competenza,  oggi sta alleggerendo il suo messaggio, complice l’avvento delle start-up prima e del periodo pandemico poi.

Similarità
Abbiamo una tendenza inconscia a favorire chi è più simile a noi. Valutiamo più positivamente chi ha caratteristiche uguali alle nostre o a persone a noi vicine (come luogo d’origine o background formativo). Ed ecco che percepiremo più vicino e tenderemo a tenere in maggiore considerazione chi veste alla moda come noi, compra gli stessi brand, o evita quelli che evitiamo noi, o ha le nostre stesse attenzioni in fatto di sostenibilità.  Si crea così un effetto bolla che si auto-rinforza con la scelta spontanea di indossare capi di abbigliamento simili, in questo modo ci si rispecchia e si fortifica il legame identitario all’interno del gruppo (ingroup) e si prendono le distanze da ciò che è diverso (outgroup) considerandolo meno “buono”.

Familiarità
Tendiamo a preferire ciò con cui abbiamo maggiore familiarità. Questo ci fa provare emozioni più positive nei confronti di qualcuno o qualcosa di cui si ha avuto esperienza, ad esempio se un incontro di persona è preceduto dalla vista di una foto (es. di un qualsiasi social: linkedin, facebook, wapp) e se le immagini sono coerenti è probabile che la prima creerà un effetto virtuoso per la seconda.

Effetto catena
La percezione di una caratteristica genera un’opinione anche su altre caratteristiche.
L’opinione “è curato e ben vestito” genera opinioni anche sulla competenza “sarà anche bravo e competente” o al contrario “è dimesso… sarà incompetente”.
 
Questa breve panoramica ci mostra come il nostro cervello si inganni nel guardare e arrivi a conclusioni affrettate per questo sapersi presentare è diventata una vera soft skill ne ho scritto recentemente qui.

Chiudo con un pensiero di  Virginia Woolf che con un linguaggio davvero  poetico restituisce agli abiti un senso più profondo “Per quanto sembrino cose di secondaria importanza, la missione degli abiti non è soltanto quella di tenerci caldo. Essi cambiano l'aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo”.

 
 
 
 

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Mettere a fuoco nel guardare e nell'essere visti - Parte I

21/3/2023

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Siamo fenomeni offerti alla vista, diceva lo psicologo James Hillman, quello che offriamo è la nostra immagine e con questa creiamo aspettative sulla nostra identità e tutto questo accade in un battito di ciglia.
Ciascuno di noi inquadra la realtà con i propri filtri che hanno in comune il fatto di essere soggetti a delle sfocature (si tratta di errori cognitivi meglio conosciuti come bias nei quali inciampiamo nel formulare le nostre opinioni), di quelle che riguardano l’immagine parlerò in questo post e nel prossimo.

Alla base delle sfocature
Quel che arriva prima influenza quello che arriva dopo
Questo effetto si chiama priming,  vale a dire che l’elaborazione di una precedente informazione influenza l’elaborazione delle informazioni successive. Per esempio se mostro sui social una foto in abbigliamento formale,  con colori scuri (es. blu, grigio, nero), quelle forme e quei colori funzioneranno da “prime” per concetti quali professionalità e serietà.
Categorizziamo
Per dare ordine e senso al mondo che osserviamo, creiamo delle categorie, queste categorie attivano comportamenti specie-specifici che sono legati all’etichetta (vale a dire al giudizio/stereotipo) che attribuiamo alla categoria.
In fatto di immagine ad esempio in linea generale se vediamo una persona in abbigliamento casual con colori chiari e fantasie curvilinee, tenderemo a classificarla come semplice,  socievole  e disponibile e con molta probabilità, nel caso avessimo bisogno di un’informazione, ci avvicineremmo a questa con maggiore facilità rispetto ad un’altra persona in abbigliamento classico con colori scuri e fantasie angolose che tenderemo a classificare come distaccata e severa.
La prima categoria attiva un comportamento “verso”,  la seconda “via da”.
 
Gli elementi che producono le diverse sfocature
Maschile-Femminile
Il genere maschile o femminile è uno dei principali elementi che ostacola una messa a fuoco nitida in fatto di immagine.
Tendiamo ad associare l’idea di successo, carriera ad un uomo molto di più  che ad una donna.
La modella Rai Dove, dall’aspetto particolarmente androgino,  in un’intervista (iO Donna, 9 maggio 2017). ha raccontato che prima di intraprendere la carriera di modella ha passato un periodo difficile durante il quale, trovandosi senza soldi, sfruttava proprio le sue sembianze maschili per poter lavorare come uomo in una palestra. Aveva capito infatti che i maschi vengono pagati meglio. Ora si batte contro le ingiustizie di ogni tipo, convinta, come sottolinea sui social, che “il genere non esiste”.
Per quanto riguarda l’immagine uomini e donne sono giudicati diversamente per ciò che indossano, lo rappresenta bene la campagna “Don’t measure a woman’s worth by her clothes”,
La campagna è uscita con il logo di Terres de Femmes nel 2015 (l’ente chiarisce in questo twit la sua posizione ), disegnata da Theresa Wlokka (direttore artistico e alcuni studenti della Miami Ad School di Amburgo,  infine Frida Regeheim  è la copywriter.
La campagna mette bene in luce come il genere femminile sia giudicato in base a forti stereotipi molto di più rispetto agli uomini.
Tuttavia oggi si aprono nuovi scenari, nel tentativo di superare questo bias di genere.
Sui social si è diffuso un movimento chieamato #degenderfashion, che tradotto in termini semplici significa:  «indosso il mio abbigliamento e non importa in quale reparto del negozio l’ho preso».
Le tendenze delle passerelle prêt-à-porter negli ultimi anni, sono orientate ad eliminare l’idea di qualsiasi stereotipo nel vestire. Il genderless fashion è il totale abbandono della netta distinzione tra maschile e femminile, e l’utilizzo di capi d’abbigliamento, accessori e colori senza alcuna differenza di genere.
Secondo alcune recenti ricerche, i consumatori appartenenti alla Generation Z sono quelli che più facilmente potranno andare in questa direzione, infatti spesso acquistano indumenti al di fuori dell’area gender a loro assegnata. Questa tendenza ha portato molti brand e retailer a ripensare i canoni del settore e introdurre delle linee di abbigliamento più inclusive.


Continua nel prossimo post la disamina delle sfocature nella messa a fuoco dell'immagine da parte del nostro cervello.

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Ma come ti vedi?

28/2/2023

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Ti chiederai cosa c'entra Kafka con il titolo di questo articolo, che ricorda il format televisivo di Carla Gozzi ed Enzo Miccio, nel quale i conduttori davano consigli di stile per valorizzare i concorrenti.
Ebbene, trovo che nei suoi Diari Kafka (alcuni stralci in fondo all'articolo) abbia raccontato benissimo le inquietudini che si possono provare di fronte alla propria immagine. Quelle inquietudini che in misura diversa possono essere le nostre e che  raccontate dall'esterno, come riflesse da uno specchio, possono esserci d'aiuto per modulare effetti e azioni su di noi.

Ed ecco cosa arriva dal racconto che Kafka fa di sé:
- percezione di essere mal vestito (mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, che ero vestito malissimo), 
- il senso di esclusività e soggettività negativa (ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto), 
- l'impossibilità e la non volontà di cambiare (non chiedevo abiti nuovi.... evitare di presentare... la bruttezza dei nuovi)

E ancora ci mostra il collegamento tra abbigliamento e postura (assecondavo gli abiti brutti anche con il mio comportamento, camminavo con la schiena curva, le spalle sbilenche....) e il disagio davanti allo specchio percependosi brutto (avevo paura degli specchi, perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile).

Infine il collegamento che propone tra dentro e fuori (se avrò un avvenire tutto si sistemerà automaticamente) facendo intendere che il successo dato dalle sue qualità personali, avrebbe messo a posto, compensando, spostando il focus, o chissà come, la questione immagine.

Trovo dolcemente triste l'uso che fa del futuro: non crede che le cose andranno così, tuttavia pensare all'opzione di un avvenire gli rende più affrontabile la quotidianità del presente....

Noi sappiamo bene la levatura del personaggio e di quello che ci ha consegnato eppure lui non la vedeva, e se guardiamo le sue foto (una a fondo pagina) certo non useremo le sue parole per descriverlo, eppure... 
Di qui la domanda che propongo nel titolo "Ma come ti vedi?" Tutto il resto è una conseguenza. 
Trovo sempre affascinante l'analisi delle cause, ma qui, utilizzando gli spunti del racconto, mi voglio soffermare sugli effetti.

Quando diventiamo severi giudici di noi stessi etichettandoci negativamente il compito che deleghiamo all'abbigliamento è quello di coprirci per nasconderci, disinvestiamo sulla nostra immagine, l'apparire divenuta qualcosa di frivolo, superficiale, mentre la nostra interiorità qualcosa di salvifico. Così dentro e fuori, assumono pesi differenti, l'immagine va in secondo piano, oppure le due dimensioni diventano antagoniste anziché alleate.

Pensando al modello delle stagioni interne, questo modo di pensare è tipico della stagione Inverno che tende ad usare l'abbigliamento come protezione, per ingentilire un po' la sua posizione dovrebbe mettersi le lenti della stagione Primavera che vede l'abbigliamento come libera espressione, gioco e divertimento.
Allora per l'effetto del potere dell'abito di rinforzare, quando diventiamo severi giudici potremmo partire dall'attingere dal guardaroba primavera e dal suo stile, muovendoci da dentro a fuori e viceversa per iniziare un cambiamento nel modo di vederci.



Dai Diari di Kafka 

Mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, che ero vestito malissimo e notavo se altri erano vestiti bene, salvo che il mio pensiero non riuscì per parecchi anni a trovare la cagione del mio miserevole aspetto in quegli abiti. Siccome già allora ero avviato, più con la fantasia che in realtà, ad avere poca stima di me, ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto dapprima rigido come una tavola, poi cascante a pieghe. Non chiedevo abiti nuovi perché, se proprio dovevo essere brutto, volevo almeno star comodo e, oltre a ciò, evitare di presentare al mondo, che aveva fatto l'abitudine agli abiti vecchi, la bruttezza dei nuovi… (31 dicembre, Diari 1911)

....
Perciò assecondavo gli abiti brutti anche col mio portamento, camminavo con la schiena curva, con le spalle sbilenche, braccia e mani impacciate: avevo paura degli specchi perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile che d'altronde, non poteva essere rispecchiata conforme a verità. Poiché, se proprio avessi avuto quell'aspetto, avrei dovuto suscitare anche più grande scalpore; e durante le passeggiate domenicali accettavo da mia madre leggeri spintoni nella schiena e troppo astratti ammonimenti e profezie che non riuscivo a mettere in rapporto con le mie preoccupazioni di allora… (2 gennaio, Diari 1912)
...
Volendo, potevo bensì camminare ritto, ma mi stancavo nè riuscivo a figurarmi perchè il portamento curvo dovesse danneggiarmi in avvenire. Se avrò un avvenire, tutto, immaginavo,  andrà a posto da sé. Un siffatto principio non era scelto perché contenesse la fiducia in un futuro della cui esistenza non ero persuaso, ma aveva piuttosto lo scopo di facilitarmi la vita: di camminare, di vestirmi, di lavarmi, di leggere, soprattutto di chiudermi in casa, la qual cosa mi procurava la minor fatica e richiedeva il minor coraggio … (2 gennaio, Diari 1912)
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Franz Kafka
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iL BAGAGLIO SI FA DA Sé

31/1/2023

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Complice un breve periodo di vacanza a inizio gennaio, l’idea della prossima meta ed una frase letta nel libro di Valerie Perrin mi sono trovata a riflettere ad ampio spettro sul concetto di bagaglio.
L’autrice del libro ne parla a proposito della preparazione della valigia che fa per andare nella consueta località di villeggiatura in cui la ospita un’amica da ormai 24 anni, e dice:  “c’è troppo casomai nel mio bagaglio”.
Avendo conosciuto un po’, nel corso della lettura, la protagonista  credo parli di un bagaglio “prudente” fatto per far fronte a numerose eventualità: casomai piovesse, casomai si sporcasse, casomai si rompesse … Ma il casomai potrebbe anche riguardare: casomai andassi ad un festa, casomai incontrassi il principe azzurro, casomai facessi quell’escursione, in questo caso più che prudente si tratterebbe di un bagaglio per delle “chance”.
Mi sono chiesta allora quanti tipi di bagagli ci capita di fare, quali sono più nelle nostre corde, ed ecco i primi che mi sono venuti in mente:
  • Bagaglio “solo l’indispensabile”: qui si tratta di avere lo stretto necessario, articoli che sappiamo che certamente utilizzeremo.
  • Bagaglio “leggero”: in questo caso oltre a ciò che sicuramente useremo c’è qualcosina in più che pensiamo possa tornare utile.
  • Bagaglio “tutto fuorché il necessario”: al contrario qui abbiamo di tutto, tranne quello che ci serve.
  • Bagaglio “perfetto”: un bagaglio che corrisponde perfettamente alle necessità, quello che serve c’è e non c’è nulla di superfluo.
 
E se ci pensiamo bene dal bagaglio vestimentario possiamo passare al bagaglio esperienziale e ci renderemmo conto che il discorso è analogo quando per un motivo o per l’altro svalutiamo chi siamo, chi possiamo essere e ci preoccupiamo al posto di occuparci.
Il bagaglio esperienziale “solo l’indispensabile” è quello in cui ci precludiamo esperienze perché magari ci costano (fatica fisica, economia, emotiva, etc.), e così rimaniamo nella nostra zona di comfort.
Il bagaglio esperienziale “leggero” ci sposta un po’ più in là e ci permette di scoprire qualcosa di nuovo.
Il bagaglio “tutto fuorché il necessario” è quello che ci fa “fare per fare” senza ascoltarci nel profondo, con il rischio di stancarci e farci perdere fiducia nei progetti e nel futuro.
Il bagaglio “casomai” è anche questo caratterizzato da un fare per fare affogato nell’ansia e nella preoccupazione.
Il bagaglio “perfetto” naturalmente non esiste ma a questo ci sia avvicina molto quello che contiene un fare che corrisponde al nostro essere e ne è conseguenza.

Per modulare l’opinione sul tipo di bagaglio, che sia vestimentario o esperienziale, si tratta a parer mio, di capire come inquadrare la questione.
Prendiamo ad esempio un bagaglio vestimentario carente di qualcosa che ci serve, mettiamo che piova e ci manchi l’ombrello, o un capospalla che ci ripari dalla pioggia, abbiamo diverse possibilità: quella cosa che manca posso decidere di comprarla, farmela prestare, adattare qualcosa che ho con me a quello scopo, muovermi solo in luoghi asciutti, evitare di uscire per non bagnarmi, o altro ancora.
Analogamente nel caso di un bagaglio esperienziale “carente” o presupposto tale, mettiamo che desideriamo un cambiamento lavorativo e sulla carta non abbiamo abbastanza esperienza o non abbiamo un titolo di studio richiesto, anche qui abbiamo diverse possibilità: possiamo decidere di acquisire il titolo o l’esperienza, trovare un’alternativa che consenta di fare qualcosa di analogo in altro modo, o in altro contesto, e così via.

Si tratta cioè di passare dall’idea di un bagaglio-zavorra ad un bagaglio-risorsa, senza giudizio o quanto meno non troppo severo.
Come fare? A me è utile pensare che quello che abbiamo è quello che abbiamo deciso di avere, con le risorse che al momento avevamo e per questo va bene così, con quello addosso andiamo in giro per il mondo, con la possibilità in ogni momento di integrare, scambiare, condividere, aggiungere, togliere per arrivare alla misura che ci fa stare bene.
In definitiva si tratta di considerare i nostri abiti e il nostro fare in modo gentile per permetterci di mettere a fuoco cosa ci corrisponde e di conseguenza cosa ci serve. È in questo modo il bagaglio si fa da Sé!
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passato e futuro in 3 tempi

29/12/2022

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S’è fatto tardi molto presto. (Dr Seuss)
Il tempo fluisce in modo uguale per tutti gli uomini. E ogni uomo galleggia nel tempo in maniera diversa. (Manuel Neila)
Ogni conclusione nasconde in sé un nuovo inizio. (Mario Gennatiempo)

Fine anno, nuovo anno che arriva … uno sguardo al futuro si accompagna ad una riflessione sul tempo, e  una riflessione sul tempo mi riporta a quello che ho imparato nella mia formazione su questo argomento: Chronos, Kairòs, Kyklos.
Chronos è la concezione di un tempo lineare fatto di attimi in successione, il tempo dell’organizzazione, dell’agenda, delle scadenze.
Kairòs è il tempo verticale della soggettività, dell’occasione, dell’opportunità, il tempo “opportuno per…”
Kyklos è una temporalità fatta di un succedersi di momenti che hanno un inizio, uno sviluppo e una fine.

Un’attività che mi è sempre piaciuta, è di riflettere su come sto vivendo il tempo in un certo momento. Ci sono stati periodi Chronos nei quali vedevo solo la linearità, lo scorrere del tempo fatto di impegni e doveri, giornate e mesi nei quali facevo il conto alla rovescia  perché  poi ci sarebbe stata una pausa, un break che mi sembrava non arrivare mai.
Ci sono stati momenti Kairòs, quelli magici della sincronicità junghiana, dove tutto sembrava perfetto, sono quei momenti nei quali ti sembra di leggere segnali che ti fanno dire: ecco vedi che è proprio il momento giusto per … 
E poi Kyklos, i cicli, sapere che esistono è per me una risorsa enorme, sapere che le cose cambiano, che si aprono e si chiudono mi rassicura, soprattutto nei momenti più difficili.

È da qualche giorno che ci penso e mi sono chiesta che approccio ho in questo momento verso il tempo e quale dimensione mi risuona di più. Un anno fa di questi tempi scrivevo di un cambio d’abito nel mio fare, era un tempo Kairòs, arrivavo da anni Chronos e oggi mi risuona Kyklos:  ho compiuto 50 anni, ho chiuso parti di attività e mi sto cimentando in qualcosa di nuovo.
Kyklos è una dimensione che parla di trasformazione, all’interno del suo movimento circolare nuove forme verranno plasmate attraverso aggiunte, sostituzioni, riduzioni, proprio come accade ad un capo d’abbigliamento che è diventato per noi largo, stretto o semplicemente non è più adatto al nostro stile. La trasformazione può essere minima, magari solo il colore perché ci ha stufato, può essere funzionale, qualche centimetro in più perché magari nel tempo si è accorciato o ristretto, oppure può essere sostanziale, quel capo lo facciamo diventare qualcosa d’altro, prima era una giacca e lo trasformiamo in una gonna. Questo dipende da quanto è distante la sua forma da quello che ci serve e dalla nostra immaginazione, in ogni caso l’obiettivo è che continui a vestirci ma in un modo più coerente e  adatto per chi siamo.
Se ti è venuta voglia di rivedere la tua storia alla luce di queste dimensioni temporali e riflettere su dove ti trovi oggi, ecco qui come fare.
Chronos – il gioco dei puntini
Quando eravamo bambini con questo gioco univamo i puntini e scoprivamo che cosa sarebbe apparso. Con questa versione quello che apparirà sarà la tua storia sulla linea di Chronos. Traccia una linea segna all’origine il tuo anno di nascita e al termine l’anno in cui siamo. Nel mezzo tutto ciò che è avvenuto, vale a dire i tuoi ricordi.
Kairòs – il senso delle cose: rifletti su ciò che hanno rappresentato gli eventi per te, e traccia una linea verticale su quegli eventi che sono stati “il tempo opportuno per…”, “il momento giusto”. Kairòs e il tempo in cui nuove occasioni si sono aperte.
Kyklos – ascese velocissime (cit.): a questo punto traccia delle spirali che tengano insieme dei periodi che per te hanno un comun denominatore potranno essere nella parte alta se saranno stati momenti di soddisfazione e positivi o nella parte bassa se saranno stati momenti difficili.
E ora la parte che  personalmente preferisco: immagina un pezzetto di futuro, mettilo su Chronos,  soffermati a guardare il disegno che è apparso e rifletti su:
-  come ti stai approcciando al tempo
-  in quale ciclo ti trovi
-  gli eventi di oggi in che relazione sono con il tuo passato e con quello che vuoi per il tuo futuro
-  cosa vuoi per il tuo futuro, ci sono trasformazioni che desideri attuare
 
Qui di seguito un esempio, al quale potrai aggiungere parole, simboli, disegni e tutto quello che arriva dalla tua fantasia.


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E ora a te!
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Sguardi dal Guardaroba

17/11/2022

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Ci sono molti modi di approcciarsi al guardaroba, a me piace quello della protagonista del libro della Seminara "Atlante degli abiti smessi" fatto di poesia, analisi, gioco e ironia.
 
Dalla sua antologia i miei preferiti sono:
"Vestiti liberi e indipendenti. Meglio averne diversi nell'armadio .... sono quelli che non sottilizzano fra inverno e estate, basta cambiare le scarpe o inspessirli con un golf, uno scialle. Sono sereni, abituati a stare sulla soglia....
Vestiti illusionistici. Che ti fanno felice. Solitamente morbidi nei tessuti, cedevoli al tatto, allo sguardo, alle voci. Che vibrano tra la gente senza bisogno di te, e rispondono al mondo anche se taci, o sei stanca. Tieniteli stretti, con cura e gratitudine. Così preziosi nei tempi freddi e solitari."
 
Poi ci sono quelli che mi fanno tenerezza e mi mettono malinconia
“Vestiti disadattati .... che stanno in disparte nell'armadio, tutti nascosti in un angolo, lontani dal resto, isolati, anche quando tu stai attenta ad appenderli in gruppo. Che hai fatto di tutto per accettare ... ma restano sempre diversi da te, non addomesticabili…
Vestiti che t’intristiscono, appena li metti diventi gobba, e le braccia piú lunghe. Ho il sospetto che sia il piglio svasato e a metà polpaccio, unito al prugna (o peggio al grigio), a dare quell’aria da donna tradita non rassegnata né vendicata a sufficienza. Inutile mascherare con una sciar-
pa etnica o una collana pop, è come costituirsi – o ammettere di essere state scoperte col cuore smagliato in mano.”
(da E. Seminara - Atlante degli abiti smessi).

Il nostro guardaroba in questo modo diventa un raccoglitore di sensazioni e stati emotivi che ci portiamo addosso e che ci porta verso i nostri obiettivi o via da questi, per qualcuno tutto questo è casuale, per altri è causale.
Per rendere causale la relazione tra gli abiti e il nostro Sé occorre un po’ di osservazione, uno schema di riferimento e qualche domanda.
Ecco quindi una traccia da seguire:
  • Osserva per una decina di giorni gli abiti che indossi e annota: cosa hai indossato (tipologia di capi: taglio, tessuto, colori, stile); Come ti sei sentita (stati d’animo, sensazioni, etc.); Occasione d’uso (es. lavoro, tempo libero, etc.); Come descriveresti lo stile: (es. casual, elegante, originale, etc.).
  • Al termine del periodo rifletti con queste domande: Quali capi ti hanno fatto sentire bene? Quali ti hanno tolto energia? Quali ti hanno fatto sentire autentica?  
A questo punto fai la tua sintesi, se è il caso lascia andare quello che non ti corrisponde, ne guadagnerai in consapevolezza e buon umore.
 

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