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Ma come ti vedi?

28/2/2023

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Ti chiederai cosa c'entra Kafka con il titolo di questo articolo, che ricorda il format televisivo di Carla Gozzi ed Enzo Miccio, nel quale i conduttori davano consigli di stile per valorizzare i concorrenti.
Ebbene, trovo che nei suoi Diari Kafka (alcuni stralci in fondo all'articolo) abbia raccontato benissimo le inquietudini che si possono provare di fronte alla propria immagine. Quelle inquietudini che in misura diversa possono essere le nostre e che  raccontate dall'esterno, come riflesse da uno specchio, possono esserci d'aiuto per modulare effetti e azioni su di noi.

Ed ecco cosa arriva dal racconto che Kafka fa di sé:
- percezione di essere mal vestito (mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, che ero vestito malissimo), 
- il senso di esclusività e soggettività negativa (ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto), 
- l'impossibilità e la non volontà di cambiare (non chiedevo abiti nuovi.... evitare di presentare... la bruttezza dei nuovi)

E ancora ci mostra il collegamento tra abbigliamento e postura (assecondavo gli abiti brutti anche con il mio comportamento, camminavo con la schiena curva, le spalle sbilenche....) e il disagio davanti allo specchio percependosi brutto (avevo paura degli specchi, perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile).

Infine il collegamento che propone tra dentro e fuori (se avrò un avvenire tutto si sistemerà automaticamente) facendo intendere che il successo dato dalle sue qualità personali, avrebbe messo a posto, compensando, spostando il focus, o chissà come, la questione immagine.

Trovo dolcemente triste l'uso che fa del futuro: non crede che le cose andranno così, tuttavia pensare all'opzione di un avvenire gli rende più affrontabile la quotidianità del presente....

Noi sappiamo bene la levatura del personaggio e di quello che ci ha consegnato eppure lui non la vedeva, e se guardiamo le sue foto (una a fondo pagina) certo non useremo le sue parole per descriverlo, eppure... 
Di qui la domanda che propongo nel titolo "Ma come ti vedi?" Tutto il resto è una conseguenza. 
Trovo sempre affascinante l'analisi delle cause, ma qui, utilizzando gli spunti del racconto, mi voglio soffermare sugli effetti.

Quando diventiamo severi giudici di noi stessi etichettandoci negativamente il compito che deleghiamo all'abbigliamento è quello di coprirci per nasconderci, disinvestiamo sulla nostra immagine, l'apparire divenuta qualcosa di frivolo, superficiale, mentre la nostra interiorità qualcosa di salvifico. Così dentro e fuori, assumono pesi differenti, l'immagine va in secondo piano, oppure le due dimensioni diventano antagoniste anziché alleate.

Pensando al modello delle stagioni interne, questo modo di pensare è tipico della stagione Inverno che tende ad usare l'abbigliamento come protezione, per ingentilire un po' la sua posizione dovrebbe mettersi le lenti della stagione Primavera che vede l'abbigliamento come libera espressione, gioco e divertimento.
Allora per l'effetto del potere dell'abito di rinforzare, quando diventiamo severi giudici potremmo partire dall'attingere dal guardaroba primavera e dal suo stile, muovendoci da dentro a fuori e viceversa per iniziare un cambiamento nel modo di vederci.



Dai Diari di Kafka 

Mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, che ero vestito malissimo e notavo se altri erano vestiti bene, salvo che il mio pensiero non riuscì per parecchi anni a trovare la cagione del mio miserevole aspetto in quegli abiti. Siccome già allora ero avviato, più con la fantasia che in realtà, ad avere poca stima di me, ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto dapprima rigido come una tavola, poi cascante a pieghe. Non chiedevo abiti nuovi perché, se proprio dovevo essere brutto, volevo almeno star comodo e, oltre a ciò, evitare di presentare al mondo, che aveva fatto l'abitudine agli abiti vecchi, la bruttezza dei nuovi… (31 dicembre, Diari 1911)

....
Perciò assecondavo gli abiti brutti anche col mio portamento, camminavo con la schiena curva, con le spalle sbilenche, braccia e mani impacciate: avevo paura degli specchi perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile che d'altronde, non poteva essere rispecchiata conforme a verità. Poiché, se proprio avessi avuto quell'aspetto, avrei dovuto suscitare anche più grande scalpore; e durante le passeggiate domenicali accettavo da mia madre leggeri spintoni nella schiena e troppo astratti ammonimenti e profezie che non riuscivo a mettere in rapporto con le mie preoccupazioni di allora… (2 gennaio, Diari 1912)
...
Volendo, potevo bensì camminare ritto, ma mi stancavo nè riuscivo a figurarmi perchè il portamento curvo dovesse danneggiarmi in avvenire. Se avrò un avvenire, tutto, immaginavo,  andrà a posto da sé. Un siffatto principio non era scelto perché contenesse la fiducia in un futuro della cui esistenza non ero persuaso, ma aveva piuttosto lo scopo di facilitarmi la vita: di camminare, di vestirmi, di lavarmi, di leggere, soprattutto di chiudermi in casa, la qual cosa mi procurava la minor fatica e richiedeva il minor coraggio … (2 gennaio, Diari 1912)
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Franz Kafka
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iL BAGAGLIO SI FA DA Sé

31/1/2023

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Complice un breve periodo di vacanza a inizio gennaio, l’idea della prossima meta ed una frase letta nel libro di Valerie Perrin mi sono trovata a riflettere ad ampio spettro sul concetto di bagaglio.
L’autrice del libro ne parla a proposito della preparazione della valigia che fa per andare nella consueta località di villeggiatura in cui la ospita un’amica da ormai 24 anni, e dice:  “c’è troppo casomai nel mio bagaglio”.
Avendo conosciuto un po’, nel corso della lettura, la protagonista  credo parli di un bagaglio “prudente” fatto per far fronte a numerose eventualità: casomai piovesse, casomai si sporcasse, casomai si rompesse … Ma il casomai potrebbe anche riguardare: casomai andassi ad un festa, casomai incontrassi il principe azzurro, casomai facessi quell’escursione, in questo caso più che prudente si tratterebbe di un bagaglio per delle “chance”.
Mi sono chiesta allora quanti tipi di bagagli ci capita di fare, quali sono più nelle nostre corde, ed ecco i primi che mi sono venuti in mente:
  • Bagaglio “solo l’indispensabile”: qui si tratta di avere lo stretto necessario, articoli che sappiamo che certamente utilizzeremo.
  • Bagaglio “leggero”: in questo caso oltre a ciò che sicuramente useremo c’è qualcosina in più che pensiamo possa tornare utile.
  • Bagaglio “tutto fuorché il necessario”: al contrario qui abbiamo di tutto, tranne quello che ci serve.
  • Bagaglio “perfetto”: un bagaglio che corrisponde perfettamente alle necessità, quello che serve c’è e non c’è nulla di superfluo.
 
E se ci pensiamo bene dal bagaglio vestimentario possiamo passare al bagaglio esperienziale e ci renderemmo conto che il discorso è analogo quando per un motivo o per l’altro svalutiamo chi siamo, chi possiamo essere e ci preoccupiamo al posto di occuparci.
Il bagaglio esperienziale “solo l’indispensabile” è quello in cui ci precludiamo esperienze perché magari ci costano (fatica fisica, economia, emotiva, etc.), e così rimaniamo nella nostra zona di comfort.
Il bagaglio esperienziale “leggero” ci sposta un po’ più in là e ci permette di scoprire qualcosa di nuovo.
Il bagaglio “tutto fuorché il necessario” è quello che ci fa “fare per fare” senza ascoltarci nel profondo, con il rischio di stancarci e farci perdere fiducia nei progetti e nel futuro.
Il bagaglio “casomai” è anche questo caratterizzato da un fare per fare affogato nell’ansia e nella preoccupazione.
Il bagaglio “perfetto” naturalmente non esiste ma a questo ci sia avvicina molto quello che contiene un fare che corrisponde al nostro essere e ne è conseguenza.

Per modulare l’opinione sul tipo di bagaglio, che sia vestimentario o esperienziale, si tratta a parer mio, di capire come inquadrare la questione.
Prendiamo ad esempio un bagaglio vestimentario carente di qualcosa che ci serve, mettiamo che piova e ci manchi l’ombrello, o un capospalla che ci ripari dalla pioggia, abbiamo diverse possibilità: quella cosa che manca posso decidere di comprarla, farmela prestare, adattare qualcosa che ho con me a quello scopo, muovermi solo in luoghi asciutti, evitare di uscire per non bagnarmi, o altro ancora.
Analogamente nel caso di un bagaglio esperienziale “carente” o presupposto tale, mettiamo che desideriamo un cambiamento lavorativo e sulla carta non abbiamo abbastanza esperienza o non abbiamo un titolo di studio richiesto, anche qui abbiamo diverse possibilità: possiamo decidere di acquisire il titolo o l’esperienza, trovare un’alternativa che consenta di fare qualcosa di analogo in altro modo, o in altro contesto, e così via.

Si tratta cioè di passare dall’idea di un bagaglio-zavorra ad un bagaglio-risorsa, senza giudizio o quanto meno non troppo severo.
Come fare? A me è utile pensare che quello che abbiamo è quello che abbiamo deciso di avere, con le risorse che al momento avevamo e per questo va bene così, con quello addosso andiamo in giro per il mondo, con la possibilità in ogni momento di integrare, scambiare, condividere, aggiungere, togliere per arrivare alla misura che ci fa stare bene.
In definitiva si tratta di considerare i nostri abiti e il nostro fare in modo gentile per permetterci di mettere a fuoco cosa ci corrisponde e di conseguenza cosa ci serve. È in questo modo il bagaglio si fa da Sé!
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passato e futuro in 3 tempi

29/12/2022

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S’è fatto tardi molto presto. (Dr Seuss)
Il tempo fluisce in modo uguale per tutti gli uomini. E ogni uomo galleggia nel tempo in maniera diversa. (Manuel Neila)
Ogni conclusione nasconde in sé un nuovo inizio. (Mario Gennatiempo)

Fine anno, nuovo anno che arriva … uno sguardo al futuro si accompagna ad una riflessione sul tempo, e  una riflessione sul tempo mi riporta a quello che ho imparato nella mia formazione su questo argomento: Chronos, Kairòs, Kyklos.
Chronos è la concezione di un tempo lineare fatto di attimi in successione, il tempo dell’organizzazione, dell’agenda, delle scadenze.
Kairòs è il tempo verticale della soggettività, dell’occasione, dell’opportunità, il tempo “opportuno per…”
Kyklos è una temporalità fatta di un succedersi di momenti che hanno un inizio, uno sviluppo e una fine.

Un’attività che mi è sempre piaciuta, è di riflettere su come sto vivendo il tempo in un certo momento. Ci sono stati periodi Chronos nei quali vedevo solo la linearità, lo scorrere del tempo fatto di impegni e doveri, giornate e mesi nei quali facevo il conto alla rovescia  perché  poi ci sarebbe stata una pausa, un break che mi sembrava non arrivare mai.
Ci sono stati momenti Kairòs, quelli magici della sincronicità junghiana, dove tutto sembrava perfetto, sono quei momenti nei quali ti sembra di leggere segnali che ti fanno dire: ecco vedi che è proprio il momento giusto per … 
E poi Kyklos, i cicli, sapere che esistono è per me una risorsa enorme, sapere che le cose cambiano, che si aprono e si chiudono mi rassicura, soprattutto nei momenti più difficili.

È da qualche giorno che ci penso e mi sono chiesta che approccio ho in questo momento verso il tempo e quale dimensione mi risuona di più. Un anno fa di questi tempi scrivevo di un cambio d’abito nel mio fare, era un tempo Kairòs, arrivavo da anni Chronos e oggi mi risuona Kyklos:  ho compiuto 50 anni, ho chiuso parti di attività e mi sto cimentando in qualcosa di nuovo.
Kyklos è una dimensione che parla di trasformazione, all’interno del suo movimento circolare nuove forme verranno plasmate attraverso aggiunte, sostituzioni, riduzioni, proprio come accade ad un capo d’abbigliamento che è diventato per noi largo, stretto o semplicemente non è più adatto al nostro stile. La trasformazione può essere minima, magari solo il colore perché ci ha stufato, può essere funzionale, qualche centimetro in più perché magari nel tempo si è accorciato o ristretto, oppure può essere sostanziale, quel capo lo facciamo diventare qualcosa d’altro, prima era una giacca e lo trasformiamo in una gonna. Questo dipende da quanto è distante la sua forma da quello che ci serve e dalla nostra immaginazione, in ogni caso l’obiettivo è che continui a vestirci ma in un modo più coerente e  adatto per chi siamo.
Se ti è venuta voglia di rivedere la tua storia alla luce di queste dimensioni temporali e riflettere su dove ti trovi oggi, ecco qui come fare.
Chronos – il gioco dei puntini
Quando eravamo bambini con questo gioco univamo i puntini e scoprivamo che cosa sarebbe apparso. Con questa versione quello che apparirà sarà la tua storia sulla linea di Chronos. Traccia una linea segna all’origine il tuo anno di nascita e al termine l’anno in cui siamo. Nel mezzo tutto ciò che è avvenuto, vale a dire i tuoi ricordi.
Kairòs – il senso delle cose: rifletti su ciò che hanno rappresentato gli eventi per te, e traccia una linea verticale su quegli eventi che sono stati “il tempo opportuno per…”, “il momento giusto”. Kairòs e il tempo in cui nuove occasioni si sono aperte.
Kyklos – ascese velocissime (cit.): a questo punto traccia delle spirali che tengano insieme dei periodi che per te hanno un comun denominatore potranno essere nella parte alta se saranno stati momenti di soddisfazione e positivi o nella parte bassa se saranno stati momenti difficili.
E ora la parte che  personalmente preferisco: immagina un pezzetto di futuro, mettilo su Chronos,  soffermati a guardare il disegno che è apparso e rifletti su:
-  come ti stai approcciando al tempo
-  in quale ciclo ti trovi
-  gli eventi di oggi in che relazione sono con il tuo passato e con quello che vuoi per il tuo futuro
-  cosa vuoi per il tuo futuro, ci sono trasformazioni che desideri attuare
 
Qui di seguito un esempio, al quale potrai aggiungere parole, simboli, disegni e tutto quello che arriva dalla tua fantasia.


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E ora a te!
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Sguardi dal Guardaroba

17/11/2022

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Ci sono molti modi di approcciarsi al guardaroba, a me piace quello della protagonista del libro della Seminara "Atlante degli abiti smessi" fatto di poesia, analisi, gioco e ironia.
 
Dalla sua antologia i miei preferiti sono:
"Vestiti liberi e indipendenti. Meglio averne diversi nell'armadio .... sono quelli che non sottilizzano fra inverno e estate, basta cambiare le scarpe o inspessirli con un golf, uno scialle. Sono sereni, abituati a stare sulla soglia....
Vestiti illusionistici. Che ti fanno felice. Solitamente morbidi nei tessuti, cedevoli al tatto, allo sguardo, alle voci. Che vibrano tra la gente senza bisogno di te, e rispondono al mondo anche se taci, o sei stanca. Tieniteli stretti, con cura e gratitudine. Così preziosi nei tempi freddi e solitari."
 
Poi ci sono quelli che mi fanno tenerezza e mi mettono malinconia
“Vestiti disadattati .... che stanno in disparte nell'armadio, tutti nascosti in un angolo, lontani dal resto, isolati, anche quando tu stai attenta ad appenderli in gruppo. Che hai fatto di tutto per accettare ... ma restano sempre diversi da te, non addomesticabili…
Vestiti che t’intristiscono, appena li metti diventi gobba, e le braccia piú lunghe. Ho il sospetto che sia il piglio svasato e a metà polpaccio, unito al prugna (o peggio al grigio), a dare quell’aria da donna tradita non rassegnata né vendicata a sufficienza. Inutile mascherare con una sciar-
pa etnica o una collana pop, è come costituirsi – o ammettere di essere state scoperte col cuore smagliato in mano.”
(da E. Seminara - Atlante degli abiti smessi).

Il nostro guardaroba in questo modo diventa un raccoglitore di sensazioni e stati emotivi che ci portiamo addosso e che ci porta verso i nostri obiettivi o via da questi, per qualcuno tutto questo è casuale, per altri è causale.
Per rendere causale la relazione tra gli abiti e il nostro Sé occorre un po’ di osservazione, uno schema di riferimento e qualche domanda.
Ecco quindi una traccia da seguire:
  • Osserva per una decina di giorni gli abiti che indossi e annota: cosa hai indossato (tipologia di capi: taglio, tessuto, colori, stile); Come ti sei sentita (stati d’animo, sensazioni, etc.); Occasione d’uso (es. lavoro, tempo libero, etc.); Come descriveresti lo stile: (es. casual, elegante, originale, etc.).
  • Al termine del periodo rifletti con queste domande: Quali capi ti hanno fatto sentire bene? Quali ti hanno tolto energia? Quali ti hanno fatto sentire autentica?  
A questo punto fai la tua sintesi, se è il caso lascia andare quello che non ti corrisponde, ne guadagnerai in consapevolezza e buon umore.
 

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Da che parte stai?

21/9/2022

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                                                 Quel che è fuori è anche dentro, e ciò che non è dentro, non è da nessuna parte (T. Terzani)

Il dentro e il fuori, quello che è in superficie e quello che è in profondità, quello che appare e quello che è: che rapporto c'è tra queste due dimensioni? Una conta più dell'altra?
 
E da qualche giorno che mi soffermo su questo pensiero, complice un lavoro di cucito. Ero alle prese con la realizzazione di una giacca, sono andata per via empirica e sono inciampata in alcuni errori che hanno richiesto qualche scucitura più del dovuto, così nel di dentro la stoffa si è un po’ rovinata, inoltre non avendo l’attrezzatura per le rifiniture queste sono rimaste da fare.
Dal di fuori la giacca si presenta bene, un bel tessuto e nessuna grande imperfezione, tanto che ho ricevuto diversi complimenti indossandola, ma io so che dentro ci sono delle “ferite” dei lembi di stoffa lisi è un po’ rovinati che non potranno tornare più come prima, ci sono degli errori non completamente messi a posto, solo  aggiustati in modo frettoloso.
E mi sono detta che è una perfetta analogia del rapporto tra la nostra esteriorità e interiorità.
La parte esteriore, vale a dire l'immagine, l'apparenza, il sembrare, sono il nostro involucro, la parte visibile, quello che ci presenta nell'immediato al mondo. Il ruolo di questa dimensione non è semplice, non ha scampo è lì in bella vista, esposta a valutazioni e giudizi, comprendo che talvolta abbia necessità o voglia di camuffarsi, imbellettarsi, sottrarsi, rendersi conforme a presunte aspettative.
La dimensione interiore, vale a dire l'identità, il nostro essere, la parte profonda che non si vede  subito, e che non tutti vedono, rimane all’immaginazione, ha un’aura di mistero, ha il fascino ambiguo del “potenziale”. D’altro canto è quella parte che magari è in sofferenza e viene taciuta, può riportare ferite più o meno profonde, proprio come quelle della mia giacca, può contenere aree di miglioramento che richiedono maggior lavoro di quanto le sia stato dedicato.
 
Il mondo ci osserva, per lo più, da fuori, ma chi siamo e il nostro movimento verso il mondo parte da dentro. Proprio come  nel caso della mia giacca: gli altri la osservano da fuori, ma la sua creazione è partita dalle cuciture realizzate dal rovescio, al suo interno.
Nel rapporto tra queste due parti, quando tutto funziona al meglio, c'è coerenza, sinergia, comunicazione, espressione reciproca, così "chi siamo" parte da dentro e si esprime nell'aspetto. Tornando all’analogia con la giacca, quando il rovescio contiene buone  cuciture e rifiniture anche l’esterno sarà di bell’aspetto.
Quando invece ci sono insicurezza, pressioni del contesto, giudizi e simili, chi siamo risulta ambiguo, a seconda della maschera che indossiamo e che ci serve per adattarci, sembriamo più questo o quello e nel gioco del mascherarci iniziamo a diventare altro e via, via,  facciamo sempre più fatica a recuperarci, a recuperare le nostre caratteristiche più profonde.
Sempre restando sull’analogia della giacca, quando il rovescio è stato maltrattato, con tagli troppo profondi,  scucito, rifilato, rattoppato, l’interno rischia, in certe zone, di essere più delicato e fragile, si fa più fatica a vedere il valore della stoffa.

Per lungo tempo ho pensato che, ai fini del cambiamento e del benessere, la priorità andasse alla dimensione interiore, che un bell’aspetto se non faceva il paio con caratteristiche interne di valore non ne avesse di per sé, che il bello fuori fosse un trabocchetto, che quello che conta è coltivare la propria interiorità e che curando l’esteriorità si potesse solo ottenere un inganno.
Poi sono arrivati gli studi sulla cognizione incarnata e sulla cognizione vestita a spiegarmi che azioni  sulla dimensione esteriore influenzano la dimensione interiore, che prestare attenzione all’involucro può favorire un ambiente più favorevole per la crescita interiore, dunque ho rivisto la mia credenza dando pari dignità e importanza ai due aspetti e ho messo tutto qui, nel manifesto di PersonAtelier.
 
E tu da che parte stai?










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Altrove

31/8/2022

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/al·tró·ve/
In altro luogo: essere, trovarsi, abitare.
E ancora: luogo che simboleggia l'assenza dell'empirico, del quotidiano, del banale e che richiama un desiderio o una speranza di fuga.

Questi i principali significati presi dal Dizionario per questo avverbio.

Agosto è stato questo per me, un essere, un abitare in altro posto dal mio quotidiano, e questo ha portato necessariamente come effetto il misurarsi con la diversità: attività diverse, tempi diversi, luoghi diversi, persone diverse e abiti diversi e questo senza andare dall'altra parte del mondo, ma solo in un'altra regione.

Il tempo scandito dagli orari del negozio ha lasciato il posto ad un tempo libero non programmato, il solito panorama cittadino ha lasciato posto al verde e al mare e così anche gli abiti si sono accorciati e alleggeriti.

Quello che ogni volta mi colpisce, quando viaggio, è il fattore "contesto-dipendente", vale a dire: ciò che è "normale" e quindi meglio accettato ed opportuno in un certo contesto, in un altro non lo è allo stesso modo. Qui mi soffermo sull'abbigliamento ma direi che vale un po' per tutto.

Il vestirsi di più o di meno e in differenti modi, risulta "normale" e "appropriato" in certi perimetri e non in altri.

In spiaggia, ad esempio, è "normale" stare in costume, ed è "strano" rimanere vestiti, ma via, via che lasciamo quel perimetro le regole si invertono, sulla passeggiata ci sembra ancora ok stare in costume ma meglio aggiungerci un pezzo e, ancora, se ci spostiamo un po' ci fa strano se non siamo completamente vestiti, e così il comune senso del pudore si allarga e si restringe, dalla battigia al centro cittadino.

E questo mi ha fatto pensare alle conseguenze del contesto sul rapporto con il proprio corpo e in generale sull'apertura mentale.
Prendiamo ad esempio il vivere in un ambiente caldo che, in generale, porta a svestirsi di più, avendo così il corpo più alla nostra vista. E dato che questo comportamento, in quel luogo, lo adottano quasi tutti, quella diventa la "norma", lo "standard" che potrà essere per ciascuno rimodulato rispetto al proprio sé.

In ogni caso questa condizione secondo me ci permette di familiarizzare e normalizzare il rapporto con la nostra immagine, limitando il giudizio molto di più che in un contesto nel quale il corpo rimane più coperto.
Su di me ho osservato che dove vivo, in una città, quando fa caldo indosso quasi sempre pantaloni lunghi, gonne e abiti lunghi, tutto leggero ma lungo, al mare il mio abbigliamento si accorcia, e questo perchè la maggior parte delle persone fa lo stesso, ma quando ritorno in città, ritorno al mio standard. Questo naturalmente dipende da quanto ciascuno di noi è sensibile all'esterno, ed io lo sono.
In ogni caso, dopo queste riflessioni mi chiedo come poter agire su quel perimetro di cui parlavo prima, quando da geografico diventa mentale fino a creare dei veri e propri tabù facendoci perdere in accettazione e autostima.

Credo che come sempre il punto di partenza sia la consapevolezza, il fatto di rendersi conto di quanto il contesto, nel  bene e nel male ci condizioni, in questo caso, nel rapporto con l'abbigliamento e con il corpo, in modo da agire e non essere agiti per poi affidarsi ai concetti della scienza che ci dicono che possiamo sentirci diversamente vestendoci diversamente, e ancora concedendoci maggiore indulgenza dalle rappresentazioni che ci sminuiscono.
E allora "altrove" può diventare il mantra per ricordarsi che c'è la possibilità di uno spazio, questa volta mentale, che simboleggia l'assenza del quotidiano, dell'abituale e che richiama un desiderio, così da dirigersi e abitare altro con rinnovati pensieri e guardaroba.





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Abiti, divise e costumi

30/7/2022

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L'identità è il cuore della nostra personalità,  esprime chi siamo, le nostre caratteristiche, attitudini, potenzialità. L'immagine rappresenta cosa mostriamo agli altri, come siamo percepiti,  è la parte di noi più accessibile al mondo.

Nell'analisi che segue faccio riferimento allo stile comportamentale (habitus) per rappresentare l'identità e, all'abito, nel senso del guardaroba, per rappresentare l'immagine.

Queste due dimensioni possono essere molto vicine, oppure più o meno distanti. Sono vicine quando l'immagine, attraverso l'abbigliamento, è allineata al nostro essere e lo rappresenta in modo efficace, iniziando a parlare al suo posto, sono distanti quando sono disallineate, quando il nostro modo di apparire non ci racconta, anzi può portarci lontano da chi siamo.


Immaginando una scala che vada da 0 a 3, potremmo trovarci, semplificando molto, nelle seguenti situazioni:
  • zero: identità e immagine coincidono, ci mostriamo per ciò che siamo e ne siamo soddisfatti, in questo caso le due dimensioni si rafforzano. Ad esempio il mio stile comportamentale è orientato all'azione, all'eccellenza, al lusso (io lo chiamo stile Estate) e nell'immagine mi piace vestire bene, in modo formale o comunque anche se casual con dettagli ricercati. Oppure il mio stile comportamentale è orientato all'originalità, alla visibilità, al divertimento (io lo chiamo stile Primavera) e nel look mi piace vestire in modo estroso, divertente, vitaminico. O ancora il mio stile comportamentale è orientato al pensiero, alla riservatezza, alla sobrietà (io lo chiamo stile Inverno) e così dò poca importanza all'abbigliamento, adotto un look discreto, sobrio, che copre e protegge il mio habitus. E ancora per finire il mio stile comportamentale è orientato alla relazione, alla praticità, all'aiuto (io lo chiamo stile Autunno) è così anche nell'abbigliamento ricercherò la comodità, la semplicità senza particolari fronzoli.
    Il nostro sé profondo  si esprime attraverso il sé materiale in modo lineare e diretto, denotando consapevolezza e accettazione di chi si è, quindi quello che succede è che semplicemente "siamo" e di conseguenza ci manifestiamo agli altri, e l'abito calza comodamente sull'habitus.

  • uno: in questo caso c’è un piccolo scarto tra chi siamo e come ci mostriamo. Per esempio potrei avere uno stile comportamentale  Primavera ma mostrare un'immagine  un po' sottotono, rifugiandomi in un guardaroba pratico e sportivo. O al contrario avere uno stile comportamentale Autunno e avere un'immagine curata e classica. A questo livello quello che succede è che in linea di massima stiamo bene con noi, il confronto e il paragone con l'altro potrebbe attivare di tanto in tanto delle piccole frustrazioni, che se ben gestite possono diventare spinte a migliorarsi. In questo caso a volte l'abito diventa la divisa dell'habitus, a tratti rassicurante perché adatta allo scopo, a tratti strettina perché non consente la massima libertà di movimento.
  • A livello due e tre iniziano ad esserci delle distanze più significative tra l'essere e l'apparire, il disallineamento di solito si spiega con esperienze che hanno creato pressioni dall'esterno di adattamento, per esempio potrei avere  uno stile naturale Primavera che per esigenze di lavoro ha contenuto il suo estro e la sua vivacità in un'immagine più rigorosa e seria, o al contrario uno stile Inverno che sempre per ragioni di lavoro ha dovuto sviluppare visibilità ed estroversione anche nel look. In questi casi l'abito rischia di diventare un costume, un travestimento  che rischia di creare distanza e offuscare l'habitus.


Diventa a questo punto interessante osservare il proprio guardaroba e valutare quanto sia composto da abiti che calzano a pennello, quanto da divise e quanto da costumi e partire da qui per lavorare sulla distanza, iniziando a togliere quello che non vogliamo e semplicemente lasciare uno spazio vuoto da ascoltare.
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Vestire chi siamo

30/6/2022

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In questi giorni riflettevo su una frase che mi capita di sentire più volte durante le consulenze , ovvero: “questi  abiti li uso al lavoro, poi nella vita uso tutt’altro”,  oppure  al contrario,  “ora che sto prevalentemente a casa mi vesto così, ho tante cose belle che rimangono lì nell’armadio”.
E così, nel primo caso ci si veste per chi non si è e nel secondo non ci si veste per chi si è.
Sembra un gioco di parole marzulliano ma io le trovo due cose diverse:
  • quando ci vestiamo per chi non siamo e non ci interessa essere: aggiungiamo al nostro sé parti che lo “adattano” e  lo rendono conforme, rischiando così di perderci di vista
  •  quando non ci vestiamo per chi siamo: o almeno non lo facciamo completamente rischiamo di ridurre e assottigliare il nostro sé togliendoci possibilità di manifestazione ed espressione.
 
Nel primo caso abbiamo un sé adattato e nel secondo un sé contenuto, ora se questo è per noi un dato noto, che non ci disturba e magari anche transitorio nulla di male, se invece lo viviamo con dispiacere e  rammarico possiamo fare un po’ d’ordine mettendo qualche puntino o meglio qualche parentesi:
  • Vestirsi per chi (ancora non) siamo: vuol dire spostarsi verso  delle potenzialità desiderate, in questo caso  gli abiti non sono più oggetti per l’adattamento, diventano  vettori di cambiamento e completamento. Da attuare per ogni sfera del nostro sé che vogliamo vedere crescere, ad esempio voglio essere sportiva come una runner,  inizio a tirare fuori il completo da corsa, e poi lo indosso per una camminata e poi per camminare e correre.  
  • (Non) Vestirsi  per chi siamo:  vuol dire  riposizionarsi in sé, in questo caso se riteniamo che non ci siano occasioni per indossare il tal abito, possiamo usare gli abiti per crearle.  Ad esempio scelgo dall’armadio quell’abito che mi piaceva tanto e lo mettevo per andare in ufficio e ora lo indosso per fare una passeggiata e prendere un caffè,  o per fare una commissione.
 
Dunque a noi la scelta ogni giorno di vestirci per chi non siamo, per chi ancora non siamo, o per chi siamo, le forme ed i colori al di là della nostra volontà comunicheranno, e allora tanto vale farlo a  nostro vantaggio.
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Filogenesi dei vestiti

21/5/2022

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Flugel nel suo libro dedicato alla psicologia dell’abbigliamento riporta un interessante parallelismo tra evoluzione della specie ed evoluzione dell’abbigliamento.
Il nostro guardaroba comprende diverse tipologie di indumenti: bluse, calze, pantaloni, giacche, gonne che possono essere paragonate alle diverse specie viventi.  George Darwin, figlio di Charles Darwin, ha tratteggiato un confronto tra l’evoluzione delle forme di vita e l’evoluzione degli abiti.
La biologia ci insegna che una specie può svilupparsi per gradi, a volte perdendo quelle caratteristiche che non hanno più utilità, altre mantenendole in forma ridotta.
Lo stesso possiamo osservare  nell’abbigliamento, ad esempio in alcune giacche a coda da uomo sulla schiena sono apposti due bottoni, oggi ornamentali, un tempo utilizzati per fermare verso l’alto le code in modo che non intralciassero andando a cavallo.
Così come i risvolti delle maniche e dei pantaloni oggi sono decorativi ma un tempo  le maniche dei soprabiti e delle giacche venivano spesso risvoltate per mettere in mostra i dettagli ricercati del capo sottostante.
I risvolti dei pantaloni  trovavano ragione di esistere per proteggerne il fondo, si trattava di una manovra temporanea e i pantaloni venivano tirati giù non appena si abbandonava la strada fangosa per entrare in casa.
A determinare le sorti del’evoluzionismo degli abiti vi è la moda, in alcuni periodi accelererà il suo ritmo, un esempio è stato dopo la Rivoluzione Francese con la comparsa della borghesia, periodo nel quale intere specie scomparvero, altre il ritmo del cambiamento sarà più lento non essendoci ragioni storiche o culturali alla base.
Ai giorni nostri il  fast fashion e allo stesso modo la sostenibilità  sta portando ad una semplificazione nella manifattura degli abiti che via, via stanno perdendo dettagli che richiedono spesso un prezzo troppo elevato nella lavorazione e così, capo dopo capo assistiamo a piccole estinzioni e si spera a nuove apparizioni.
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Dal Se al Sé

29/4/2022

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Il concetto di Sé risponde alla domanda “chi sono io?’” È la conoscenza che abbiamo maturato, riguardo alla nostra personalità, attraverso esperienze e interazioni e che ci fa dire che siamo estroversi o introversi, sicuri o insicuri, coraggiosi o timorosi, belli o brutti.
Comprende la percezione di come ci vediamo (sé reale), di come vorremmo essere (sé ideale), di come riteniamo di dover essere (sé normativo).
Raramente queste dimensioni coincidono, sono per lo più presenti delle discrepanze che provocano differenti emozioni: di tristezza e frustrazione quando il sé percepito come reale è differente da quello ideale e di ansia e paura quando è differente dal sé normativo.
Esistono poi, nel concetto di sé, delle immagini ipotetiche, relative a ciò che si può, si vuole realizzare/diventare (sé possibili).
Chi ha un’immagine positiva di sé, si piace, vede le proprie qualità apprezzando le proprie risorse.
Chi ha un’immagine di sé negativa coglie le mancanze, facendo fatica a vedere le qualità positive.
Ritengo che per aprire uno spazio di cambiamento nella visione di sé, una buona strada da percorrere sia quella del Sé possibile,  le diverse ipotesi funzionano, infatti, come incentivi per il comportamento futuro, in termini di speranze e scopi.
Vedere lo spazio di possibilità del Sé significa ragionare e parlare il linguaggio del  “se”, aprendo così una visione su chi mi aspetto di diventare (sé atteso), passando attraverso domande, scenari e timori (sé sperato), per arrivare a chi mi piacerebbe essere, in modo da contenere tutte le possibilità.
Per farlo possiamo utilizzare il nostro guardaroba. La teoria del completamento simbolico del Sé dice che quando ci sentiamo incompleti uno dei modi che più frequentemente utilizziamo per completarci è attraverso gli oggetti e l’abbigliamento è uno di questi.
Posso ad esempio indossare un paio di jeans e sneakers per sentirmi più giovanile, una giacca e un paio di occhiali per sentirmi più intelligente, un cappello originale e un vistoso paio di occhiali da sole per sentirmi una diva.
Possiamo quindi selezionare dal nostro armadio ciò che a livello di forma e colore rappresenta la proiezione futura e desiderata di Sé. A questo scopo vengono in aiuto le Stagioni Interne che rappresentano l’identità visiva di caratteristiche comportamentali. Ed  ecco come usare il “se” per sviluppare il Sé.
  • Se nel tuo modo di apparire vuoi trasmettere un allure di successo e forza, utilizza forme grintose e lineari con punte e angoli, colori “statement” dal blu, al nero al grigio e  colori energici quali il rosso e il bianco.
  • Se vuoi lasciare un segno scegli colori vivaci e accostamenti forti dal rosso al viola, il giallo e l’arancio accesi, colori brillanti quali fucsia, corallo, verde lime e menta. E per le fantasie: cerchi, pois, forme curvilinee, stampe anche vistose, animalier.
  • Se vuoi essere affidabile e vuoi creare una relazione empatica con il tuo interlocutore, affidati a colori neutri o naturali quali giallo, ocra terracotta, marrone, e in generale tutti i toni della terra, ma anche colori pastello specie il rosa. Per le stampe e nelle forme prediligi quadri, quadrati, quadrettini e fantasie a plaid, stampe floreali, dettagli femminili (voulant, balze, rouches).
  • Se vuoi stare più a contatto con il tuo mondo interiore rispetto all'esterno, scegli nei colori il blu, il nero, il bianco, il viola scuro. Nelle forme: fantasie astratte, etniche, paisley.
 
In questo modo, attraverso i vestiti che indossi, inizierai a segnalare a te e all’esterno il Sé in fase di cambiamento.
Sperimentare per credere :-)

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