La storia dell'abbigliamento coincide con la nostra storia di esseri umani, l’esigenza di modificare il nostro aspetto è una costante antropologica.
Più che proteggersi dagli agenti fisici atmosferici, l’uomo dalla notte dei tempi ha sentito l’esigenza di proteggersi da agenti magici, a questo si deve l’uso di pelli e amuleti tratti dai trofei conquistati, così come l’abitudine di dipingere il corpo o applicare ornamenti di vario genere. La credenza era che in questo modo la forza sarebbe passata al proprietario attraverso un processo di identificazione.
Inoltre più che nascondere e coprire gli abiti, nelle popolazioni primitive, sembrano aver avuto la funzione di attirare l’attenzione, come affermano diversi studiosi.
Ed accade così che quello che si è realizzato nel corso della storia si ripete nella vita dell’individuo: l’uomo delle caverne indossa le pelli dell’animale conquistato e il bambino si mette il vestito del padre, o la bambina quello della madre, il teenager indossa abiti simili alla sua rock star preferita, l’uomo in carriera gli accessori e i vestiti che rappresentano status symbol.
Insomma l’abbigliamento consente di appropriarsi di qualità desiderabili di altro e altri e lo fa attraverso le forme, i colori, i simboli facendosi strumento per comunicare informazioni, strumento di inclusione e di esclusione, strumento per creare identità e identificazione.
In questo contesto la psicologia può essere di grande utilità per svelare significati, cogliere collegamenti, accrescere consapevolezza sulle dinamiche in gioco permettendoci di aumentare il nostro benessere e la nostra efficacia.
Mi piace parlare a questo proposito di Psicologia dell’Abbigliamento che secondo me permette di passare dall’azione del “mettersi addosso” all’azione del “vestirsi”.
Ho messo a fuoco questa distinzione grazie alla lettura dell’editoriale del direttore di Vogue in un articolo di Franca Sozzani che titolava proprio “Indossare o vestirsi?”
La distinzione della Sozzani era incentrata su: “il giusto equilibrio fra il bello e l'eccessivo”. La sua argomentazione puntava in particolare sulla personalizzazione, sull’originalità, intimando a portare la moda, facendo degli abiti una forma di comunicazione ed espressione della propria estetica e originalità.
La distinzione declinata in chiave psicologica passa secondo me dalla consapevolezza delle proprie risorse (in fatto di immagine e identità) e dalla messa a fuoco dei propri obiettivi e progetti, affinché l’abbigliamento diventi parte integrante di un lavoro sul dentro e fuori per supportare la propria crescita e sostenere il processo di cambiamento che si desidera realizzare.
In questo quadro vestirsi diventa quindi un comportamento attivo consapevole, libero, divertente e arricchente, mentre mettere addosso risulta un comportamento passivo determinato da disinformazione su di sé, disinteresse, insicurezze, paure, rinunce e rassegnazione.
Faccio una precisazione sul “mettersi addosso”, ne parlo nei termini di sopra quando questo determina un disagio per la persona che vorrebbe altro, quando cioè l’abbigliamento è un effetto del nascondersi, del vorrei ma non posso o non so come fare, della necessità di proteggersi, di mettere delle distanze. Differente è il caso in cui una persona non ha alcun interesse per l’abbigliamento e la cosa non è per lui/lei affatto un problema.
Concludo questa disamina con un’ultima precisazione, parlo di Psicologia dell’Abbigliamento e non di Psicologia della Moda perché come ho descritto all’ inizio di questo post ritengo l’abbigliamento una costante antropologica che ci definisce e ci appartiene indipendentemente dalla moda e che a livello di lessico e semantica sento più vicina ed è per questo che la Psicologia dell’Abbigliamento è la cornice teorica di riferimento del metodo Dai Forma e Colore al tuo Stile, se vuoi approfondire di cosa si tratta trovi qui le info.