Notando le differenze rispetto a qualche tempo fa: un bancone, una macchina da cucire ed una tagliacuci e dopo le consuete frasi di circostanza sul come stai, cosa fai, mi ha chiesto: “ma tu non eri una psicologa?” Sorridendo le ho risposto che facevo la psicologa e anche altro.
Quello scambio di battute mi è rimasto impigliato nei pensieri.
Pensavo all’essere e al fare, a questo dilemma. Faccio, dunque sono? Sono, dunque faccio? Sono a prescindere? Si tratta di due entità, che come due insiemi si intersecano, oppure una contiene l’altra?
Nel modello del coaching ontologico trasformazionale c’è una distinzione tra essere e fare. Il concetto è che il nostro essere è più del nostro fare, farli coincidere vuole dire dichiarare che se sono quello faccio, non posso essere altro, in questo modo blocchiamo la possibilità di un cambiamento, distinguere quello che siamo da quello che facciamo significa vedere quello che possiamo essere, quello che possiamo diventare e aprire così uno spazio per il cambiamento.
Sembra tutto molto chiaro.... in teoria....il mio primo pensiero è stato che effettivamente non posso più dirmi una psicologa per il fatto di non fare le cose che facevo prima, e poi subito a dirmi “eh ma così sto facendo quello che facevo notare ai miei coachee, ovvero scambiare il mio essere con il mio fare”.
Lo vedo...tuttavia penso che il mio fare oggi sia davvero molto diverso da quello di un tempo: non sto più in aula 8 ore, non faccio più sessioni di coaching, non compilo più report, e proprio come c’è scritto nella mia bio: ho sostituito file con fili, monitor con specchi, pc con macchina da cucire, d'altro canto sono iscritta ad un albo professionale, quello degli psicologi, studio la psicologia dell'abbigliamento, conduco consulenze nelle quali si analizza lo stile comportamentale per vederne i risvolti stilistici.
Quindi chi sono oggi e cosa faccio?
Il nostro cervello funziona per categorie, definizioni, etichette e per associazioni spesso stereotipate, e in quanto tali imprecise ed errate, in questo scenario lo psicologo è quello della stanza d'analisi.
Sempre nella mia bio, scrivo che sono “un’inquieta d.o.c." che per me è un buon contenitore dei miei fare passati, presenti e probabilmente futuri, inoltre ci stanno dentro altre cose.
L’inquietudine è una caratteristica che mi ha portato a esplorare, studiare, sperimentare in diversi campi, dalla psicologia, all’immagine, al cucito, a concepire la manifattura dei capi in un certo modo, a dar valore al legame tra dentro e fuori, allo scrivere questo blog e così sono nati, dai forma e colore al tuo stile, il lessico dell’abbigliamento e la sua linea.
Ecco che quella definizione per me tiene insieme chi sono con tutti i fare che ne conseguono, con la specifica che in tempi diversi ci sono dei “fare prevalenti,” che da un lato rinforzano certe parti di noi, dall'altro ci ingannano facendoci pensare che siamo solo quello, invece le azioni si sommano tra di loro, si sommano alle aspirazioni, alle ispirazioni, ai bisogni, agli interessi e diventano me, quella che sono.
Parafrasando Kurt Lewin, il mio essere è più della somma del mio fare.
Con questa faccenda del “fare prevalente” mi è più facile comprendere che l’essere e il fare si possano scambiare e confondere è un po’ come dire che il fare è il vestito che noi osserviamo allo specchio e che gli altri guardano. A volte perdiamo l’abitudine di vedere cosa c’è sotto e creiamo un tutt’uno, altre volte abbiamo ben presente cosa c’è sotto e a seconda dei contesti e dei momenti lo adorniamo di conseguenza.
Tornando alla domanda iniziale: essere e fare sono distinti, la relazione è integrata: sono dunque faccio e così divento altro che mi porterà altro fare che a sua volta insieme ad altre dimensioni agirà sul mio essere.
Prestiamo attenzione a quando facciamo coincidere tutto il nostro essere con un unico fare e alleniamoci a vederne le diverse sfaccettature, a guadagnarne saranno l’abito e l’habitus.