E così, nel primo caso ci si veste per chi non si è e nel secondo non ci si veste per chi si è.
Sembra un gioco di parole marzulliano ma io le trovo due cose diverse:
- quando ci vestiamo per chi non siamo e non ci interessa essere: aggiungiamo al nostro sé parti che lo “adattano” e lo rendono conforme, rischiando così di perderci di vista
- quando non ci vestiamo per chi siamo: o almeno non lo facciamo completamente rischiamo di ridurre e assottigliare il nostro sé togliendoci possibilità di manifestazione ed espressione.
Nel primo caso abbiamo un sé adattato e nel secondo un sé contenuto, ora se questo è per noi un dato noto, che non ci disturba e magari anche transitorio nulla di male, se invece lo viviamo con dispiacere e rammarico possiamo fare un po’ d’ordine mettendo qualche puntino o meglio qualche parentesi:
- Vestirsi per chi (ancora non) siamo: vuol dire spostarsi verso delle potenzialità desiderate, in questo caso gli abiti non sono più oggetti per l’adattamento, diventano vettori di cambiamento e completamento. Da attuare per ogni sfera del nostro sé che vogliamo vedere crescere, ad esempio voglio essere sportiva come una runner, inizio a tirare fuori il completo da corsa, e poi lo indosso per una camminata e poi per camminare e correre.
- (Non) Vestirsi per chi siamo: vuol dire riposizionarsi in sé, in questo caso se riteniamo che non ci siano occasioni per indossare il tal abito, possiamo usare gli abiti per crearle. Ad esempio scelgo dall’armadio quell’abito che mi piaceva tanto e lo mettevo per andare in ufficio e ora lo indosso per fare una passeggiata e prendere un caffè, o per fare una commissione.
Dunque a noi la scelta ogni giorno di vestirci per chi non siamo, per chi ancora non siamo, o per chi siamo, le forme ed i colori al di là della nostra volontà comunicheranno, e allora tanto vale farlo a nostro vantaggio.