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L'algebra cognitiva e la rivincita della ciabatta

1/5/2020

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Mai come in questo periodo abbiamo sperimentato il lavoro da casa, ci viene richiesto di adattare le nostre abitazioni e i nostri abiti a nuove routine.
Ci si alza la mattina non più preparandosi per varcare la soglia di casa, bensì per varcare altri ambienti connettendosi tramite conference call facendo arrivare la propria immagine a blocchi e rare volte nella sua completezza.
Mi sono chiesta allora come ci viene naturale comportarci nella scelta dell’abbigliamento e se ci curiamo da capo a piedi.
Alcuni di noi avranno bisogno di vestirsi di tutto punto per iniziare la giornata, indipendentemente che siano previste o meno attività di interazione via web, altri cureranno eventualmente solo la porzione visibile in caso di contatto web, poi a seconda del livello di confidenza, della relazione, della tipologia di attività sarà curato il grado di formalità dell’abbigliamento.
Quello che mi colpisce è che anche quando ci vestiamo di tutto punto, c’è un confine che pochi varcano: la scarpa!
In pubblico, in generale, facciamo fatica a togliercele e a casa, parlo sempre in generale, facciamo fatica a metterle.
Credo che sia di molti la sensazione di stranezza nell’indossare giacca (o comunque un abbigliamento formale) e ciabatta insieme.
C’è una spiegazione neuro-scientifica per questo, si chiama algebra cognitiva che è quel particolare modo di funzionare del nostro cervello che: somma tutte le informazioni che creano coerenza con una situazione e sottrae i segnali contraddittori per arrivare ad una visione complessiva.
Di solito ci vestiamo “per uscire” e teniamo le ciabatte il tempo necessario per prepararci, il nostro cervello si aspetta che dopo esserci prepararti per benino, magari mettendo anche il make-up, i bijoux e un po’ di profumo arrivi il momento della scarpa, invece, in questo periodo, lei sfugge a questa logica.
Spinta dalla curiosità mi sono confrontata con amici e colleghi e ho posto questa domanda a una quindicina di persone chiedendo: “durante i collegamenti web che fai in questi giorni quando ti vesti in modo più formale hai le scarpe o le ciabatte”? Le risposte arrivavano una dopo l’altra: ciabatte, ciabatte, ciabatte….
Come è presumibile che sia la risposta è stata: beh nessuno vede se ho le scarpe o le ciabatte…. certamente lo comprendo e poi è una questione di igiene hanno detto in molti, comprendo anche questo.
In questi giorni anche io lavoro parecchio via web ma il contesto è informale, non ho la necessità di mettere la “giacca”, una blusa, un pullover, un paio di jeans vanno benissimo e il fatto di stare scalza non mi crea problemi, mentre devo dire che se indosso le mie pantofolone morbide verdi, noto che quando sono connessa e abbasso gli occhi mi viene da ritrarre i piedi, quasi a nasconderli, lo so non le vede nessuno ma il mio cervello reagisce.
Ho allora fatto una piccolo esperimento tenendo per  un’intera giornata le scarpe, una specie di mocassino comodo, la sensazione principale è stata di stranezza a muovermi in casa con le scarpe, forse un po’ per l’igiene, un po’ il sentire il piede chiuso, nella pausa pranzo mi sono sorpresa a mettermi le ciabattone verdi  e quando abbassavo gli occhi  ed ero collegata e indossavo i mocassini non ritraevo i piedi, arrivata a fine giornata mi sono tolta le scarpe e la sensazione è stata come se davvero avessi finito di lavorare, di essere in un altro spazio.
In definitiva usare le scarpe mi ha permesso di “rientrare” a casa dopo una giornata di lavoro.
Questi fenomeni vanno sotto il nome di embodied cognition (cognizione incarnata - ne ho parlato anche qui) ed enclothed cognition che ci spiega come il corpo pensi, tragga delle conclusioni, ci faccia agire e ci condizioni, anche tramite le sue estensioni (in questo caso l'abbigliamento).
Nel fatto di non mettere le scarpe in casa oltre ai fattori igienici che fanno la loro parte, vince secondo me la coerenza nell’algebra cognitiva che vede la casa come il privato, come il luogo di espressione di sé, di libertà, relax e comfort, che ci fa dire: ok posso arrivare fino ad un certo punto ma questo è troppo e non serve.
L’esperimento mi ha fatto capire che forse invece a qualcosa serve, ad esempio a creare una coerenza diversa, dando più spessore alla sfera lavorativa, a creare un confine tra dentro e fuori che diversamente, in questi giorni che siamo sempre dentro a lavorare, è precluso, a creare dei break intermedi godendone di più (l’esempio della pausa pranzo).
In definitiva c’è qualcosa di giusto o sbagliato in tutto questo, naturalmente no, ci sono diverse modalità di funzionamento che hanno priorità diverse e come sempre secondo me l’importante è conoscere le proprie di momento in momento.
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