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Selfie, tra scatti e scarti

19/4/2025

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Foto
Qualche giorno mi stavo facendo delle foto con il cellulare in modalità selfie dovendole allegarle ad una presentazione e mi sono ritrovata in una situazione già vissuta, vale a dire scatto 4-5-6 foto e lì per lì non me ne piace nessuna, scelgo comunque quella che mi sembra la meno peggio, poi le foto rimangono lì nel cellulare e quando le riguardo qualche giorno dopo non mi sembrano poi così male, eppure sono sempre io, quella in foto e quella che giudica, allora cosa è cambiato?
Mi sono interrogata e sono arrivata ad alcune conclusioni:
  • Guardare vs. giudicare: quando ci scattiamo una foto e la guardiamo quello che facciamo non è solo guardarla bensì giudicarla  e sotto la lente della pressione del giudizio unita al risultato che vogliamo ottenere diventiamo molto severi e quello che altri non avrebbero nemmeno notato per noi diventa motivo di critica; dopo qualche giorno il giudizio si affievolisce diventando più benevolo così come la pressione sul risultato è così otteniamo una valutazione più positiva della nostra immagine;
  • Il peso delle aspettative: proprio per il risultato che ci proponiamo di ottenere (nel mio caso una bella foto da allegare alla mio bio) sul momento le aspettative sono elevate e rendono il giudizio particolarmente critico creando un circolo vizioso con il punto di sopra, successivamente con lo sciogliersi delle aspettative il giudizio si ammorbidisce;
  • L’illusione di poter avere di più/fare meglio: sul momento mentre scattiamo una foto abbiamo l’illusione di avere tutti gli scatti del mondo per catturare quello perfetto e così anche se il primo potrebbe funzionare ci diciamo che forse non è abbastanza, che si può fare meglio e questo spinge a non accontentarsi, qualche giorno dopo invece la spinta all’irraggiungibile perfezione lascia il posto al buonsenso e complice il distacco emotivo del momento si fa strada una maggiore obiettività;
  • Bias di familiarità: c’è poi un meccanismo cognitivo che fa sì che più guardiamo qualcosa, più diventa familiare e per questo più ci piace, ed ecco che qualche giorno dopo i nostri selfie che magari abbiamo intercettato qualche volta aprendo la nostra gallery sono diventati più amici e per questo più “belli”;
In definitiva quello che ho imparato da quest’analisi è che la nostra percezione non è fissa (un giorno mi vedo “inguardabile”, due giorni dopo “non male”) e che il punto critico non è tanto come veniamo nello scatto di un determinato momento quanto come ci guardiamo in quel momento.
Allora come fare per disinnescare la carica del giudizio allo scatto delle foto?
  • Abbassare il volume del giudizio:  per dirla con la teoria della discrepanza del sé (secondo lo psicologo Higgins ci sono tre livelli che caratterizzano il nostro sé: reale - come ci vediamo -,  ideale -  come vorremmo essere - , normativo  - come dovremmo essere) possiamo impegnarci ad abbassare il volume del sé normativo,  osservandoci in modo descrittivo, limitando cioè l’uso degli aggettivi e precisando in modo concreto quello che ci piace e non ci piace;
  • Favorire il distacco emotivo: dopo aver scattato qualche foto evitare di guardarle subito, lasciando passare un po’ di tempo per rivederle in un secondo momento in modo da non guardarle a caldo e lasciando che l’emozione si stemperi un po’;
  • Darsi un tempo circoscritto e un numero preciso di scatti per limitare l’effetto della ricerca della perfezione.
Da tenere a mente dallo scatto allo scarto!
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100% me

12/3/2025

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Foto
In questi primi dieci giorni di marzo 3 eventi hanno catturato la mia attenzione e uno dopo l’altro li ho messi in fila per riflettere sul quanto sia possibile assecondare il proprio stile e uscire indenni dal confronto con gli standard sociali che ci vogliono belli, eleganti, con caratteristiche socialmente desiderabili.
Gli eventi in ordine cronologico sono stati:  il 2 marzo Adam Sandler alla 97ª edizione degli Academy Awards nella quale si è presentato vestito con felpa e pantaloncini da basket, il 9 marzo Alessandro Michele, direttore creativo della Maison Valentino, alla sfilata parigina autunno/inverno 2025-26  ha ricreato l’ambientazione di un bagno con lavandini, specchi e armadietti da spogliatoio.
Infine il 10 marzo il talk “non è un paese per brutte” a cura di Valore D, che ha visto la partecipazione di Maura Giancitano, filosofa e scrittrice, come moderatrice e tre donne in rappresentanza di categorie soggette a stereotipi:  Lara Lago, giornalista e body activist, Loredana Lipperini, scrittrice, conduttrice radiofonica e attivista culturale e Nogaye Ndiaye, scrittrice e divulgatrice antirazzista.
Cosa hanno in comune i tre eventi?
Tutti parlano in un modo o nell’altro di bellezza, di canoni estetici, di cosa ci si aspetta nella nostra cultura occidentale, e di conseguenza di cosa sia opportuno e cosa non lo sia e dei possibili effetti nei casi di devianza dallo standard tracciato.
Sandler e Alessandro Michele hanno attirato giudizi divisi, nel caso di Sandler è stata apprezzata l’autenticità, la capacità di rimanere fedele a se stesso, qualcuno ci ha visto un atto politico (si veda la critica all’abbigliamento di Zelenskyy nell'incontro con Trump), qualcun altro si è semplicemente fatto una risata e qualcun altro ancora lo ha criticato, in primis il conduttore che lo ha paragonato ad un giocatore di poker della tarda ora notturna, che fosse una gag preparata oppure no, l’episodio fa riflettere,  Sandler stesso ha dichiarato di non interessarsi a quello che indossa, gli piace il suo look, si reputa una brava persona e questo è quanto.
Nel caso di Alessandro Michele chi lo ha elogiato ha colto il suo genio nel fondere il nuovo con il retrò e il massimalismo con l’ecletticità per esprimere da un lato la grande metafora dell’ossessione del tempo attraverso trasparenze, modelle non conformi ai canoni dell’età, e trovate di styling (capelli e volti tirati da elastici), dall’altro l’impossibilità di  spogliarsi delle maschere che ogni giorno indossiamo ed esprimere un sé autentico come dice lui stesso immune dalle determinazioni della vita.
Le critiche non sono certo mancate da parte di chi ha visto invece l’incapacità di fare qualcosa di nuovo, la brutalità e lo squallore dello scenario e dei capi stessi che non rappresenterebbero affatto lo stile e l’eleganza di Valentino Garavani fondatore della Maison.
Un messaggio lo lancia lo stesso Michele durante e a fine sfilata con lo slogan nella t-shirt “apollon-dyonisos” che sta a rappresentare due stili contrapposti:  la perfezione di Valentino verso il caos che caratterizza il suo estro.
Del talk di Valore D mi ha colpito in particolare un commento di un’ascoltatrice sull’importanza che dovrebbe avere “il  diritto alla trascuratezza”,  al quale le speaker rispondono sostenendo quanto sarebbe importante in un mondo che vuole le donne belle, brave e performanti che a venir valutate fossero le competenze, lasciando sullo sfondo tutto il resto,  di qui le considerazioni sull’opportunità, in un contesto di selezione, di omettere/non mostrare informazioni su di sé potenzialmente penalizzanti (sesso, etnia, caratteristiche fisiche) attraverso curricula anonimi e colloqui al buio. La risposta che hanno dato le invitate è stata un “no grazie”, bisogna essere più ambiziose, occorre puntare più in alto, in un cambio di mentalità e paradigma. Il punto di arrivo deve essere il venire viste nella totalità senza vedere cancellate parti di sé.

A questo punto tento una sintesi:
Adam Sandler e l’orgoglio di essere se stesso sempre, ovunque e comunque.
Alessandro Michele in modo analogo propone in un mondo apollineo il suo spirito dionisiaco, in definitiva anche qui il suo essere se stesso a qualunque costo.
Il talk di Valore D tra i diversi messaggi propone una sfida ambiziosa: non omettere nulla di sé per farsi guardare ed essere viste per chi si è nella propria totalità, in definitiva essere pienamente se stesse.

Ora ho due domande che mi girano per la testa: quanto è fattibile oggi, nella nostra cultura occidentale, con la nostra dotazione cognitiva piena di bias realizzare questo intento?
E in modo più provocatorio mi chiedo ma è davvero utile per noi mostrarci nella nostra totalità, ci fa davvero un buon servizio?
Non vorrei essere troppo pessimista ma sulle prime mi viene da dire che sia davvero un’impresa epica, la penso un po’ alla Homer Simpson quando constata che tutte le sue camicie sono diventate rosa causa lavaggio sbagliato e dice di non poterla indossare una camicia rosa al lavoro: “Non sono abbastanza popolare per essere diverso” dice a sua moglie Marge.
Quanti di noi al lavoro possono vestirsi alla Sandler senza venir giudicati negativamente?
Quanti di noi possono esprimere al 100% il proprio estro in una presentazione con un nuovo cliente, con un nuovo capo, senza godere del beneficio del dubbio sulle proprie capacità?
Quanti ad un colloquio di lavoro o in un meeting importante possono raccontarsi al 100% senza il rischio di essere fraintesi, non completamente capiti?
E non credo che sia solo per incapacità di chi sta dall’altra parte, conosco il lavoro che fanno head hunter e manager per andare al di là degli stereotipi, per praticare un buon ascolto che abbassi la voce del pregiudizio, certo c’è ancora tanto lavoro da fare ma tanto se ne sta già facendo in termini di divulgazione e studio.
La questione è che anche quando pensiamo di sapere cadiamo nelle trappole dei bias, certe cose succedono al di là della nostra consapevolezza, la nostra mente non è solo nel cervello ma in tutto il corpo (si vedano gli studi dell’embodied cognition) che reagisce nonostante le informazioni che possediamo, le regole che conosciamo, i valori in cui crediamo e così succede che il “diverso” in prima battuta è più nemico che risorsa, è più rivale che alleato, è più fatica che beneficio. Questo non deve essere un alibi per non lavorare sugli stereotipi, per non  impegnarsi in operazioni di decostruzione, o in attività di formazione, studio e divulgazione.
Tuttavia se non siamo pienamente risolti, tranquilli, sicuri del nostro valore (per dirla alla Sandler) o ancora non ci siamo guadagnati sufficiente popolarità e credibilità (per dirla alla Homer) possiamo fare un’operazione strategica senza viverla come un ripiego, con amarezza, vergogna o come un trucchetto, come mi pare siano state vissute le strategie raccontate nel talk di Valore D, ma al contrario come l’esercizio di una competenza del cui valore sono fortemente convinta.
Si tratta del passare dal paradigma dell’apparire a quello del mostrarsi adottando l’accorgimento della giusta misura e arrivare quindi a presentarsi “secondo misura”. In diverse altre occasioni ho parlato del “good looking”, diverso tempo fa in un articolo di giornale avevo trovato questo concetto, dell’economista Francesco Daveri scomparso qualche anno fa,  sul sapersi presentare, che diceva che se nella bellezza  non c’è merito il sapersi presentare è una competenza reale.
Decidere cosa raccontare di volta in volta, di contesto in contesto, di persona in persona è una competenza relazionale e sociale, ma non è solo questo è anche qualcosa che fa bene al nostro corpo e alla nostra mente.
Mi spiego meglio, poniamo che voglio essere me stessa sempre al 100%, e che posso farlo perché vivo in un mondo in cui non esiste il giudizio o meglio il pregiudizio negativo relativamente a certi aspetti, e poniamo che la mia indole  nell’abbigliamento mi porti a vestire abiti molto pratici, comodi, un po’ larghi, scarpe basse e ginniche, quello che succede è che creo nel mio corpo, per effetto dell’embodied cognition e dell’enclothed cognition, sensazioni di rilassatezza, calma, e se questo è il mio mood prevalente la mia zona di comfort mi può portare sino agli eccessi di inattività, indolenza, pigrizia, che si traduce anche in un pensiero più piatto. Diversi studi hanno dimostrato ad esempio che vestire in modo più formale stimola maggiormente il pensiero astratto rispetto all’abbigliamento più casual.
Dall’esperimento del camice bianco le ricerche sulla cognizione vestita si sono moltiplicate e hanno dato evidenza che gli abiti che indossiamo ci fanno fare cose diverse: le punte ci allertano, le curve ci rilassano, tessuti morbidi ci rendono più accoglienti, tessuti rigidi ci rendono più resistenti, colori caldi ci avvicinano, colori freddi ci allontanano.
Avere queste informazioni e usarle a mio avviso ci rende più competenti e ci può far stare meglio, se mi vesto in modo pratico e comodo personalmente sono nella mia zona di comfort ma ho constatato che giorno dopo giorno viene rinforzata la mia introversione, divento più chiusa e svogliata, quando sono triste e indosso qualcosa che per me è bello, che ha un colore con un livello di energia alto, con forme accoglienti ho sperimentato in prima persona un miglioramento dell’umore, se per un evento importante ho scelto un abito che ritengo starmi bene e che mi piace trovo che sia un alleato alla buona riuscita dell’iniziativa, se conduco un colloquio di selezione e voglio ottenere un buon risultato so che non devo indossare certi colori e certe forme (cronache di vita vissuta nel mondo hr con feedback ricevuti da candidati), questi non li reputo trucchi, sono il risultato di quello che ho imparato studiando i vestiti, sono una competenza acquisita al pari della proprietà di linguaggio, del pensiero laterale e del lavoro di gruppo.

Dunque per tornare alla domanda iniziale: quanto è possibile assecondare il proprio stile e uscire indenni dal confronto con gli standard sociali che ci vogliono belli, eleganti, con caratteristiche socialmente desiderabili?
Mi viene da dire che dipende da come stiamo a livello di habitus (assetto di personalità interna) e di diritti e privilegi acquisiti a livello di contesto.
Ritengo che sia molto fattibile uscire indenni dal confronto sociale se siamo sufficientemente attrezzati a livello di personalità. Secondo la teoria del completamento simbolico del sé se ci sentiamo incompleti, tenderemo a completarci con gli oggetti (semplificando molto: se mi sento vulnerabile mi corazzo con una giacca, se mi sento poco intelligente metto degli occhiali da studiosa, se mi sento piccola mi metto i tacchi), va da sé che se il nostro Sé è completo, il problema non sussiste, questo è quello che ci ha mostrato Adam Sandler.
Se il nostro habitus ha la stoffa dell’insicurezza, dell’autostima bassina, della sensibilità al giudizio altrui meglio andare per gradi, presentando di occasione in occasione una versione di sé tailor made, il guadagno sarà la credibilità per poter poi spendere la propria diversità e così si arriverà al punto di potersi permettere di indossare una camicia rosa tra mille bianche, questo è quello che ci ha mostrato la sfilata di Alessandro Michele. Questo risultato lo possiamo raggiungere anche ponendo attenzione a ciò che indossiamo.
Indipendentemente dal nostro habitus che potrà essere più o meno di buona qualità, se rientriamo in un target molto segnato da iniquità, pregiudizi e stereotipi, ci vogliono azioni di sistema che passano da strumenti e strategie più forti: norme, regole, obblighi, divieti, leggi sui quali purtroppo come singoli poco possiamo fare e quindi si ritorna al punto 1 e 2 per quello che possiamo fare nel nostro piccolo.
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Riccissima me

20/2/2025

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Sono nata con i capelli ricci. Si adattano alla mia personalità ed esprimono totalmente chi sono.
(Erin Wasson)

 
Fino ad ora su questo blog non avevo ancora scritto nulla sui capelli, eppure è un tema che mi ha sempre coinvolto moltissimo.
I miei capelli sono stati per lungo periodo fonte di insoddisfazione, da piccola mia mamma mi portava dalla sua parrucchiera che, ormai in pensione, in una recente occasione in cui l’ho incontrata mi ha ricordato di come fossi paziente ed educata nello stare sotto il suo phon a farmeli stirare.
Eh sì perché sono una riccia che per diverso tempo ha cercato di domare la chioma, con spazzole, piastre, e l’utilizzo di un casco casalingo (quando ero ragazzina si usava, era abbastanza diffuso nelle abitazioni), sotto il quale, quando mi asciugavo i capelli, trascorrevo un tempo abbastanza lungo e nel frattempo leggevo e studiavo.
Ecco ora che ci penso, i capelli per me sono da sempre collegati ai pensieri, allo studio, alle idee. Ancora oggi mentre li asciugo con un diffusore ne approfitto per leggere.
Il rapporto con i miei ricci è passato nel tempo da un totale rifiuto, ad una serena rassegnazione per arrivare oggi ad un inaspettato orgoglio, complice anche la cultura ed il movimento #embraceyourcurls (valorizza i tuoi ricci) che ha portato con sé molta divulgazione in merito.
 
I giudizi che in prevalenza un tempo affioravano alla mia mente riguardavano la stravaganza e il disordine.
Quando conducevo delle formazioni sui temi della comunicazione e del personal branding mi capitava spesso di citare esempi personali, uno di questi aveva a che fare con la distinzione tra assolutismi e relativizzazioni, che esemplificavo con un giudizio su di me per passare poi la palla ai partecipanti e l’opinione che esprimevo, nell’ottica della generalizzazione, era la seguente: ho sempre un’immagine disordinata che poi nell’ottica della relativizzazione diventava quando ho i capelli crespi la mia immagine è disordinata.
Succedeva che alcuni giudizi sulla mia immagine e andando anche oltre sulla mia personalità partivano proprio dai miei capelli, per effetto alone per il fatto di essere riccia mi percepivo: caotica, disordinata, meno professionale di colleghi che avevano una bella piega.
Il lato buono della medaglia era la percezione della creatività e dell’originalità.
 
È  stato di un certo sollievo, anche se magro, lo scoprire che non solo sola con questo vissuto, una ricerca del 2017 ha evidenziato una stretta correlazione tra il giudizio di avere capelli brutti (piega, taglio, etc.) e in disordine e il senso di autostima.
La ricerca è stata finanziata da Procter & Gamble in occasione del lancio di una nuova linea di prodotti  per capelli e realizzata dal Gender Communication Laboratory di Yale, diretto dalla Professoressa Marianne LaFrance.
Tra i risultati più sorprendenti è emerso che la sensazione di avere dei capelli in ordine e  di bell’aspetto era correlata al livello di competenza percepito: i soggetti che giudicavano i propri capelli scompigliati, in disordine o con un brutto styling percepivano le proprie capacità come significativamente inferiori rispetto ad altri, inoltre il solo fatto di pensarlo generava il giudizio di essere meno intelligenti.
Altra correlazione significativa rilevata è stata con il sentimento di insicurezza sociale, che si è tradotto per le donne in imbarazzo e vergogna e per gli uomini in nervosismo e asocialità.
E per concludere un'ulteriore correlazione rilevata è con l'autocritica, che si è manifestata con maggior severità e negatività nel giudizio delle proprie caratteristiche personali.
Quanto a differenze di genere, c’è da dire che l’effetto bad day hair è piuttosto democratico perche riguarda, a dispetto dei luoghi comuni, uomini e donne in egual misura
 
Come dicevo la consolazione è piuttosto magra, perché trovo davvero triste che la nostra testa subisca i condizionamenti della sua messa in piega, ma tanto è; magari conoscere come funzioniamo ci aiuta via, via a snodare come un buon pettine giudizi e pensieri ingarbugliati e arruffati.
 
 
Approfondimenti sulla ricerca di Yale: campione, metodologia, etc.  
Sono stati coinvolti 120 soggetti di età compresa tra i 17 ed i 30 anni (50% donne e altrettanti uomini).
Il campione era composto da più del 50% da popolazione occidentale, circa un 10% afroamericana, oltre un 20% asiatica.
I partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi, ad uno dei quali è stato chiesto di raccontare episodi nei quali giudicavano di avere capelli in disordine, un altro è stato indotto ad un pensiero negativo attraverso l’immaginazione di packaging danneggiati di prodotti scadenti, infine l’ultimo gruppo era di controllo e quindi non ha avuto alcuno stimolo.
L’intero campione è stato sottoposto a diversi test psicologici orientati a misurare l’autostima e il giudizio verso di sé, i risultati hanno sempre mostrato una maggiore correlazione del primo gruppo con un basso livello di autostima e un severo giudizio verso di sé.

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La tua zona di (s)comfort

30/1/2025

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La zona di comfort nella sua accezione migliore è quel luogo sicuro nel quale sentiamo agio, benessere e fluidità, ci sentiamo padroni delle nostre azioni, in pieno controllo di quello che succede.
Inizia a scricchiolare nel momento in cui lo spazio sicuro ci viene a noia, non ci offre più stimoli e così l'agio si trasforma in irritazione e la sicurezza in voglia di novità.
L'atteggiamento verso questa dimensione, immaginandolo come un continuum, può essere ai due estremi: fluido o bloccato. Nel primo caso ci sarà un movimento e poi una sosta per riposarsi, rifocillarsi e riprendere il viaggio, nel secondo caso ci sarà uno stallo che diventa attaccamento, impedisce nuove azioni diventando così una zona di scomfort.
Questa zona è presente anche nel nostro stile, nelle scelte che quotidianamente compiamo davanti al nostro guardaroba e prima ancora durante i nostri acquisti. 
Qui mi soffermo sulla dimensione dello stallo, esplorando le forme che nella nostra immagine l'attaccamento può assumere: niente scolli, niente di aderente, niente tacchi, niente colori accesi, solo pantaloni, solo capi comodi.
Può anche funzionare al contrario per qualcun altro la zona di (s)comfort può essere: mai senza scarpe con il tacco, mai senza rossetto, mai senza un capo attillato.

Insomma a ciascuno la sua, ma da cosa dipende l'attaccamento nella scelta di ciò che indossiamo, a cui ci affezioniamo e fatichiamo ad abbandonare?
Penso che non possa prescindere dalla nostra stoffa interiore.
Le nostre caratteristiche personali e comportamentali, un vestito per volta,  veicolano la nostra immagine che a sua volta riflette il nostro stile che a seconda delle spinte interne potrà essere più libero o in stallo portando più o meno in espansione la nostra zona di comfort.
La dinamica motoria di questa zona funziona in modo tale per cui i cambiamenti possono portarla a crescere in un'area di sviluppo e apprendimento, specie se il cambiamento introdotto non è percepito come eccessivo, e magari mantiene un codice analogo alle proprie abitudini. Per esempio non indosso mai i tacchi ma ho sempre scarpe originali, per spostarmi un po' oltre le consolidate abitudini inizio allora con un tacco medio di foggia originale.
Se invece il cambiamento è vissuto come eccessivo avendo un gap troppo elevato dall'abitudine allora ci si sposta in una zona di panico che produrrà frustrazione, disagio e malessere. Nell'esempio di sopra indossare una décolleté con tacco a spillo, sarebbe troppo, sia per l'altezza del tacco sia per lo stile.
Insomma lo spostamento è bene che sia graduale, di un' entità percepibile e coerente con la propria cifra stilistica. 

Per fare un collegamento agli stili comportamentali e quindi alle stagioni interne, ci sono stili più propensi ad agire sulla propria zona di comfort: estate e primavera i cui driver sono nel primo caso dinamismo, spinta al miglioramento, competitività e nel secondo caso, curiosità, ecletticità, apertura al cambiamento. 
E stili che lo sono meno poiché più bisognosi di stabilità e punti fermi: autunno e inverno.

Ma in definitiva è sempre necessario uscire dalla propria zona di comfort?
Per me solo se, come un vestito, sta un po' strettina e non permette libertà di movimento. 

Dunque a ciascuno la sua risposta e per trovarla lascio qui qualche domanda.
C'è qualche convinzione che limita la tua espressione nell'immagine? 
Cosa puoi iniziare a modificare nel rispetto del tuo stile e della tua voglia di cambiamento?
Da dove inizierai? 

Se pensi invece che nulla ti sia limitando rimani lì dove sei e goditi il tuo stile!

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Vestìti-Vèstiti, accenti di stile

31/12/2024

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L’ultimo post del blog non poteva che essere dedicato a loro, protagonisti dei nostri guardaroba, di questo negozio e dei miei pensieri in un libro a loro dedicato.

Il rapporto che ho oggi con i vestiti è sereno, un percorso che è partito dall’insofferenza, è passato all’adattamento per arrivare oggi ad una buona soddisfazione.
Nell’album delle foto di famiglia ho un immagine che mi ritrae all’età di 2-3 anni in spiaggia con addosso il prendisole di mia mamma che avevo sfilato dall’asta dell’ombrellone e avevo indossato per gioco e per farmi vedere. Ma di quell’episodio e della sensazione, che credo essere stata di piacere perché nella foto ero sorridente e felice, non ho un ricordo nella memoria, si tratta di un episodio fissato in un’istantanea e presente nei racconti divertiti dei miei familiari. Se faccio appello alla mia memoria, il primo ricordo che affiora è intorno ai 5-6 anni di un vestito di velluto a costine blu che desideravo che mia mamma mi comprasse, eravamo ai grandi magazzini Marus, mi piaceva tantissimo, non so se si fosse trattato di una questione di costo o cosa non avesse convinto mia mamma che non me lo comprò, ci rimasi malissimo, ma non dissi nulla, forse mia mamma non aveva neanche percepito il mio interesse.
Poi per un lungo periodo il rapporto è stato piuttosto insofferente, senza ancora conoscerlo, avevo fatto mio il pensiero di Mabel la protagonista del racconto Il vestito nuovo di Virginia Woolf che era precisamente questo:  “Quello che aveva pensato quella sera, quando all’ora del tè era arrivato l’invito della signora Dalloway, era che certo lei non avrebbe potuto essere alla moda …. ma perché non essere originale”.
Il  mio credo per molto tempo è stato essere diversa. Da ragazzina intorno ai 15-16 anni quando tutti avevano le scarpe Timberland, io avevo un modello simile ma di Coveri, i jeans per i più erano Levi’s o Uniform, i miei erano Closed e poi più avanti è stato ancora più semplice proseguire per la strada dello strano-stravagante-insolito-poco visto perché non dovevo più mediare con nessuno per l’acquisto. La strategia della stranezza dei miei vestiti, direi per tutto il periodo degli studi universitari, nelle mie credenze mi permetteva di evitare il confronto il paragone con altri, ho capito poi quanto fosse una forma di tutela. Di fatto se indossi dei capi d’abbigliamento strani,  il metro di valutazione si allontana dal concetto del bello- brutto, si deforma, si annacqua, muta in qualcosa di più soggettivo e meno discutibile.
L’ingresso nel mondo del lavoro, quello “serio” ha definito il passaggio ad un nuovo livello nel rapporto con i vestiti, che  questa volta all’opposto è diventato piuttosto omologato, i miei abiti sono diventati una divisa: una giacca, un pantalone, o un tailleur, ho ancora un paio di esemplari di completi del brand Catherine Klee nell’armadio.
Se in tutto il periodo in cui ero una professionista junior la modalità divisa dei miei vestiti poteva funzionare, diventando senior era sempre più auspicabile un upgrade del mio guardaroba, e così ci sono stati i primi contatti con professionisti del settore immagine, le prime ricerche sul perché i vestiti facessero un effetto tanto diverso sulle persone, realizzando che non erano poi così poche quelle che lo vivevano come me.

E così vestito dopo vestito ho iniziato ad appassionarmi a loro, per quello che di buono possono fare a livello di estetica, di racconto e di rinforzo di sé.
In questi giorni ho lanciato un piccolo sondaggio tra le mie amiche, per avere qualche spunto in più sul tema, senza nessuna intenzione statistica ma solo di fissare alcune suggestioni di donne di una fascia d’età tra i 45 e i 65 anni. La domanda che ho posto è stata: mi dici in una parola il tuo rapporto oggi con i vestiti.
Le parole più gettonate sono state: conflittuale, umorale, essenziale, disincantato, annoiato, combattuto, in transizione positiva, appassionato, sereno, compulsivo.
Al netto di alcuni momenti fisiologici nella crescita che portano con sé caratteristiche comuni, penso in particolare all’adolescenza, per il resto l’analisi del rapporto con i vestiti e per estensione con l’immagine racconta molto sul nostro livello di soddisfazione personale, di benessere e di equilibrio in un preciso momento.
In questo contesto per me diventa molto interessante passare dal rapporto con i vestìti al rapporto con il vèstiti. Gli accenti sono “rafforzamenti e elevazioni del tono di voce” , qui lo spostamento diventa un’esortazione (vèstiti) a usare il guardaroba in modo attivo, nel libro propongo una distinzione tra mettere addosso e indossare, la prima è una condizione di disinteresse, apatia, incuria nei confronti dei vestiti, la seconda è una condizione di consapevolezza scelta e valore verso i componenti del proprio armadio.

Se il tema ti incuriosisce nel libro Vestiti. La psicologia dietro l’abbigliamento, trovi domande, spazi di riflessione, esercizi e un test per usare il tuo guardaroba come specchio della tua personalità, per esplorarla in modo semplice, immediato e divertente.

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Il guardaroba come termometro emotivo

23/11/2024

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Leggendo il libro di Paolo Milone (L’arte di legare le persone) mi sono imbattuta in alcune righe che descrivono il fare diagnosi a partire dal tipo di scarpe, lo stile è simpatico e ironico.
Mi ha fatto pensare agli indicatori che si possono cogliere dall’abbigliamento sullo stato emotivo, e sul livello di benessere delle persone. 

Di seguito l’analisi verte sulle emozioni di base delle stagioni interne.
Dovendo associare un’emozione all’estate questa sarà la rabbia, che porta con sé un alto livello di attivazione e di conseguenza il riflesso nell’immagine sarà un guardaroba dai colori accesi, rosso tra tutti e tessuti atletici e aderenti.
L’autunno è associato alla tristezza, che trova come corrispettivo nel guardaroba una palette di colori profondi e forme morbide che nascondono e proteggono come una carezza.
La primavera è associata all’entusiasmo rappresentato da colori allegri e uno stile eclettico.
L’inverno è associato alla paura, il guardaroba si tinge di nero, grigio e tessuti molto pesanti.

Ma ancor più che per una diagnosi le stagioni sono utili per invertire la rotta. Le stagioni potranno scambiarsi i guardaroba al bisogno, ed ecco che:
  • L’estate potrà placare l’esubero di energia rossa con la tranquillità del guardaroba autunno;
  • L’autunno potrà innalzare il livello del suo umore con il guardaroba della primavera;
  • La primavera potrà arginare il suo entusiasmo con un po’ di prudenza attraverso il guardaroba dell’inverno;
  • L’inverno potrà smorzare la sua paura con l’impeto del guardaroba estate.
 
Il guardaroba sarà così sia termometro sia rimedio alle oscillazioni del nostro umore.
_______________________________________________________________
Marcello, per fare una diagnosi basta guardare le scarpe.
I depressi usano pantofole o scarpe morbide, hanno calze colore scuro, senza odore. Se un depresso ha le stringhe vuol dire che c’è qualcuno che si prende  cura di lui e glile allaccia, oppure non è un depresso
o, peggio, è un depresso metodico ad alto rischio suicidario.

Gli euforici non hanno tempo da perdere,
infilano scarpe scalcagnate per risparmiare pochi secondi
e poi camminano  male per ore.
Ci sono euforici senza  riposo che camminano giorno e notte.
Le calze sudate e puzzolenti, di tutti i colori, spesso
spaiate e bucate.
Se un euforico si presenta in ambulatorio in ciabatte o scalzo,
coi piedi neri, è da ricoverare.

Gli schizofrenici a volte indossano scarpe spaiate per vezzo,
come una presa in giro scaramantica del mondo.
I paranoici hanno scarpe buone per scappare. Se arrivano con scarponi militari infangati, bisogna ricoverarli.
I senza fissa dimora hanno scarpe rotte, ma cristallizzate dallo sporco, indistruttibili.

I nevrotici arrivano con scarpe lucide che scricchiolano sul pavimento,
io non capisco da dove venga il rumore e guardo in giro.


(Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi Editore, Torino, 2021, pag. 74-75)

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Quando sei ben vestita facci caso!

23/10/2024

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Parafrasando la citazione dello scrittore Kurt Vonnegut Quando sei felice facci caso, mi viene da dire quando sei ben vestita facci caso.
Intendo con ben vestita sia il lato estetico, sia il lato della soddisfazione emotiva e fisica, che si tratti di comfort, di leggerezza, grinta, etc.
Quando proviamo piacere rilasciamo dopamina, l’ormone della felicità e del benessere, nel 2020 la psicologa Dawnn Karen nel suo libro Dress your best life ha coniato il termine dopamine dressing per indicare quei capi che mettono buon umore in relazione ai colori energici e vitaminici.
Il farci caso consente di avere consapevolezza di cosa funziona per noi per poterlo così poi replicare al bisogno.
Per acquisire questa abitudine ti propongo alcune strategie, a te la scelta di quella che senti più tua:
  • Foto daily: con questa modalità ti propongo di fissare l’outfit che ti piace e ti fa stare bene con una foto, se vuoi raggiungere un livello pro puoi modificare la foto scrivendo qualche parola o aggiungendo delle immagini che registrino il motivo della soddisfazione, foto dopo foto avrai il tuo look book personale sempre a portata di mano sul tuo smartphone per ricaricarti e ispirarti;
  • Style app: puoi usare delle app di moda per comporre gli outfit che ti sono piaciuti e ti hanno fatto stare bene, attraverso l’app potrai fotografare i singoli capi del tuo guardaroba e comporre gi outfit che per te rappresentano il dopamine dressing, in questo modo li avrai a portata di app per poterli replicare e indossare la bisogno;
  • Diario outfit: se preferisci le parole alle immagini puoi tenere un libricino, un piccolo diario, nel quale puoi annotare gli outfit della felicità, dilungarti in una descrizione più articolata sul cosa, come e perché, in modo da aumentare ancor di più il livello di consapevolezza sui loro poteri.
E infine una suggestione generale: ogni giorno davanti al guardaroba domandati di cosa hai bisogno e prendi da lì gli ingredienti per il tuo benessere, fai lo stesso quando fai shopping.

Approfondimenti
  • Dawnn Karen, Dress Your Best Life: How to Use Fashion Psychology to Take Your Look, and Your Life, to the Next Level, 2020.
  • App per Outfit di Salvatore Aranzulla
  • Di benessere e guardaroba ne avevo già scritto qui

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Impressioni di settembre (cit.)

30/9/2024

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Questo settembre è stato tutto sommato abbastanza mite e ne ho approfittato per raggiungere il negozio a piedi e mi sono ritrovata a pensare a come il risultato possa cambiare a seconda del viaggio.
Normalmente per raggiungere il negozio prendo l’auto e percorro delle vie e dei corsi che a mio parere non hanno nulla di particolarmente sorprendente e piacevole.
Per chi è di Torino, per dire un paio delle principali strade a seconda del percorso, si tratta di Corso Regina Margherita e di Via Cigna. Inoltre anche il mezzo ha la sua influenza, la macchina è certamente comoda per trasportare oggetti e merce ma d’altro canto espone a potenziali fastidi dati dal traffico, e dalla ricerca del parcheggio.
Il fatto di andare a piedi mi ha consentito invece di percorrere delle strade molto folcloristiche, vivaci e che trovo esteticamente belle, contando su diversi itinerari, da Porta Palazzo, al Quadrilatero, Vie Centrali come Via Po, Via Garibaldi, Via Roma, con la possibilità ogni giorno di scoprire qualcosa di nuovo.
E mi sono soffermata a riflettere innanzitutto sul gran privilegio di poter iniziare la giornata con questa energia e a seguire di come l’umore cambiasse a seconda degli stimoli che percepivo, pensando infine a quanto fosse vero per me quel detto quello che tante volte ho sentito ma non avevo forse mai interiorizzato del tutto, circa l’importanza del viaggio quanto il raggiungimento della meta.
Le passeggiate di settembre verso il negozio mi hanno rivelato quanto stesse a me ogni giorno scegliere come raggiungere la mia meta, riempiendo gli occhi e lo stato d’animo di colori ed energia, con un tempo più lungo di percorrenza, con qualche peso da trasportare a mano, oppure con la comodità di un veicolo che mi permetteva, forse, di risparmiare tempo e più comodo per il trasporto di merce ma con lo scotto da pagare di qualche sbuffata per il traffico e la ricerca del parcheggio.
Il passo con all’analogia con il raggiungimento degli obiettivi è stato breve, l’obiettivo è un “cosa” che vogliamo raggiungere, il percorso è “come” lo facciamo, esattamente come i miei itinerari il come prevede delle rinunce e delle conquiste, cambia le mie percezioni,  il mio stato emotivo, mentale, il tipo di esperienze che vivo, e di conseguenza le opinioni che formulo.

Ogni giorno, consapevole di ciò, posso mettermi nelle condizioni di disegnare  la traiettoria che sento più utile e gradevole e ad ogni passo posso rivederla, riorientarla, su tante cose so di non avere un grande spazio di influenza, ma che grande potere invece settembre mi ha fatto riscoprire.

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Vesti chi sei o cosa fai?

28/8/2024

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Qualche tempo fa ho letto un post sull'account istagram di una psicologa che stimo (Amy Cuddy) che raccontava di come usi gli abiti come reminder per smettere di separare il suo sé lavorativo dal suo sé del tempo libero. Nel suo post rifletteva su come siamo abituati a dividere l'io lavorativo da quello non lavorativo e andando controcorrente affermava che questa dicotomia non ci serve e allora per ricordarselo e per mostrarlo indossa i suoi capi preferiti nelle diverse sfere di vita. Nel post ha inserito diverse fotografie che la ritraggono con i suoi abiti preferiti  in momenti professionali e non: ad esempio indossa degli stivali texani ad una ted talk e allo stesso modo ad un concerto, un abito di paillettes ad una conferenza, ad una celebrazione in famiglia e ad un concerto, naturalmente il tutto con dei piccoli adattamenti il risultato è secondo me uno stile creativo e versatile.
Ho continuato a pensare a questa faccenda sulla scia della suggestione lanciata dalla lettura del post, in passato il mio sé lavorativo e quello privato erano distinti e distanti, al lavoro in giacca e nel tempo libero molto comoda, il comune denominatore era cercare di inserire un po' di originalità in entrambe le sfere, nel guardaroba professionale relegandola soprattutto agli accessori o al taglio dei capi, nel tempo libero esprimendola pienamente nelle forme e nei colori.
Ora, avendo cambiato quello che faccio, il mio guardaroba è unico, i capi li uso indistintamente in negozio, per un'uscita serale, per un evento.
Credo che quanto più indistinto sia il guardaroba rispetto agli usi tanto più sia indicativo di un fare conseguente all'essere e per questo riflesso di una certa autenticità: sono estroso, classico o rilassato e quindi il mio guardaroba segue queste mie caratteristiche che porto in giro, con me nel mio fare. 
Al contrario la compartimentazione del guardaroba (capi per il lavoro, capi per il tempo libero, etc.) mi sembra rappresenti più un essere al servizio del fare: quando lavoro sono professionale, quando non lavoro sono estroso, classico o rilassato, etc.

In un precedente post avevo scritto che il fare è il vestito dell'essere, quello che forse lì non avevo messo bene a fuoco è che occorre osservare non solo il risultato (i vestiti che indosso) ma anche il processo, vale a dire: da quale prospettiva ho deciso di indossare quello che indosso, da ciò che faccio o da chi sono?
Quando le scelte le facciamo dal nostro fare è più difficile mettere in pratica il principio della Cuddy, perché indosserò quello che il ruolo richiede, la scelta sarà condizionata dall'esterno e dal contesto, quando le scelte le facciamo dal nostro essere la prospettiva si ribalta o perché ragioneremo in modo più tranchant: sono quello che sono in ogni momento oppure perché realmente ci sarà un continuum molto fluido nel nostro essere e nel nostro fare - sono dunque faccio.

In ogni caso non credo che una condizione sia meglio di un'altra sono semplicemente diverse e utili a degli obiettivi: se il mio obiettivo è essere autentico il principio della Cuddy sarà più funzionale, se il mio obiettivo è tenere separate le due sfere i vestiti mi aiuteranno.
Inoltre se voglio sfruttare i poteri dell'abito posso sceglierli proiettando il mio sé nel futuro e chiedermi: chi voglio essere/diventare; cosa voglio fare e iniziare il cambiamento da lì.

In questa prospettiva i vestiti diventano un nudge al servizio del nostro sé tra presente e futuro.
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Profumo e personalità

29/7/2024

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Spruzzarsi un po' di profumo è il gesto che compiamo una volta deciso un outfit e completato il make-up, è il tocco finale alla propria immagine, è allo stesso tempo il primo messaggio che inviamo, attraverso la sua fragranza, con l’arrivo in un certo ambiente e l’ultimo che lasciamo con la sua scia come traccia quando ce ne andiamo.
Effettivamente la funzione dell’odore è proprio quella di comunicare facendo arrivare il messaggio a lunga distanza, prima ancora che arrivino la vista e l’udito e così nel mondo animale ci sono feromoni di diverso tipo: sessuali per dare segnali ai futuri partner, gregari per favorire e mantenere la coesione di un gruppo, di allarme che attivano segnali di pericolo, di spazio per delimitare i confini di un territorio, di pista per tracciare un percorso da seguire.
Nell’uomo la portata di questi messaggi è inferiore ma comunque molto presente, basti pensare alla capacità di una madre di riconoscere a poche ore dalla nascita l’odore del suo bambino tra tanti altri, fondamentale ai fini dell’accudimento.
Gli odori, così come i sapori, che percepiamo arrivano direttamente al cervello limbico, creando delle potenti tracce di memoria olfattiva e degli stati d’animo.
Ha straordinariamente descritto questo effetto Marcel Proust, con il ricordo delle madeleine e del tè sul suo umore. Nella sua opera Alla ricerca del tempo perduto descrive il momento in cui è inondato da una forte gioia dopo aver assaporato un pezzo di madeleine inzuppato nel tè e l'invano tentativo di recuperare il ricordo attraverso la visualizzazione aiutandosi con le forme, poi d'un tratto il ricordo appare. Quel sapore era quello che trovava la domenica a casa della zia Léonie quando le offriva proprio quel dolce con un infuso di tè o tiglio.
Nell’evocazione del ricordo l’odore e il sapore hanno battuto di gran lunga la forma.

Questo meccanismo spiega perché per questo senso la variabilità soggettiva sia molto più elevata rispetto agli altri sensi. Il fatto che ci sia un’associazione così stretta tra la percezione, di un odore (ma vale allo stesso modo per i sapori) e un’emozione fa sì che un profumo ci piaccia oppure no.
Questo non vuol dire che non ci siano minimi comuni denominatori per la collettività, per esempio la familiarità e la cultura giocano un ruolo importante per creare delle influenze, se ad esempio vivo in un paese famoso per la presenza di lavanda, riconoscerò  questo profumo come familiare e lo valuterò come più gradevole di altri, o al contrario se nel mio paese un certo profumo è utilizzato come medicinale lo troverò meno gradevole di chi lo stesso profumo nel suo paese lo trova impiegato nel settore dolciario (gli esempi sono tratti da uno studio della Dr.ssa Jelena Djordjevic e del suo gruppo di ricerca al Montreal Neurological Institute, letto qui ).
L’embodied cognition ha poi esemplificato come numerosi odori abbiamo un particolare effetto su di noi (ne avevo parlato qui), ad esempio la menta e la cannella stimolano la memoria e l’attenzione, riducono la percezione di difficoltà di un compito e aumentano la performance.
Il profumo dei prodotti da forno crea un ambiente positivo e collaborativo, il limone e gli agrumati in genere sollecitano e infondono un senso di pulizia (anche morale)

Da questa prima disamina abbiamo iniziato a comprendere che quello che spinge o ci allontana da una fragranza è in parte chimico, in parte culturale e in (gran) parte soggettivo.
Il passaggio successivo è quello di collegare i profumi alla personalità e per farlo adotterò gli stessi criteri utilizzati per la decodifica di forme e colori, andando per associazioni e analogie, avremo così che le:
  • caratteristiche di vitalità, grinta ed energia saranno affini a profumi legnosi forti e decisi che nel linguaggio delle stagioni interne significano estate,
  • caratteristiche di giocosità, creatività e ecletticità a profumi dolci e floreali (stagione interna primavera),
  • caratteristiche di stabilità, concretezza, semplicità a profumi leggeri dal sapore di pulito (stagione interna autunno),
  • caratteristiche di introversione, individualità, libertà a profumi dai toni speziati (stagione interna inverno).
Inoltre nell’espressione della personalità intervengono altri elementi come ad esempio:
  • la quantità di profumo che si indossa e la sua persistenza: le stagioni interne dell’estate e della primavera tenderanno ad abbondare e usare profumi persistenti perché sono stagioni che lasciano il segno, al contrario autunno e inverno saranno più parche, soprattutto l’autunno che potrà prediligere eau de toilette al profumo vero e proprio, perché l’inverno potrebbe usare il profumo come protezione, filtro e barriera verso l’esterno;
  • la variabilità, vale a dire se si è fedeli ad un’unica fragranza o se si è soliti cambiare o adattare il profumo all’outfit o all’umore: anche in questo caso autunno ed inverno tenderanno ad essere inclini all’utilizzo di una unica fragranza per lunghi periodi, al contrario di estate e primavera che potranno essere più flessibili e variabili;
  • la tipologia del profumo se di nicchia, di moda o commerciale: la stagione inverno tenderà ad utilizzare profumi di marche quasi sconosciute, l’estate profumi che rappresentano status symbol preferibilmente di brand di moda, l’autunno si orienterà su brand presenti anche in centri commerciali mentre la primavera sarà più eclettica attingendo dai diversi canali sull’onda dell’emotività del momento.

Con il profumo lo stile si arricchisce di ulteriori significati, includendo le note delle fragranze possiamo arricchire il racconto di chi siamo, e siglare la firma della nostra cifra stilistica.


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